La liturgia spiegata a un amico – 2

Te lo ridico in altro modo.

Unità
C’è un tratto che accomuna coloro che varcano la soglia di una chiesa: essere alla ricerca di se stessi.
Essere se stessi significa essere indivisi. E non è facile. Non per nulla il diavolo è colui che separa, colui che ci accusa di essere divisi fin dentro noi stessi e quindi in conflitto. Per contro, lo Spirito Santo è il paraclito, colui che ci difende e ci sostiene nella ricerca di essere indivisi; egli dona la pace.

Come si oltrepassa quella soglia lo troviamo nel commento di Gregorio Magno all’incipit del libro di Samuele: “Fuit vir unus (1Sam 1,1). Vir perché il suo progetto è coraggioso. Unus perché il suo amore è unico”.

Vir è un progetto. Un progetto di indivisione che ritroviamo nel comandamento più importante: amerai il Signore tuo Dio come te stesso. E’ amerai, al futuro. Non è un imperativo, come potrebbe suonare un “ama il Signore”, ordine che chiuderebbe il tempo nella soggezione, in un ordine, in un precetto, ma un futuro che indica un cambiamento, una trasformazione, una partecipazione, una adesione, un accompagnare, un crescere dell’amore stesso. E’ realistico, è umano.
Vir unus: l’uomo è un progetto d’amore. L’unità è guadagnata nell’amore. L’unità quindi non è monismo, ma incontro, relazione vitale. Ma non è neppure una relazione esclusiva, chiusa: “amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente e il prossimo tuo come te stesso” (Lc 10,27). Chiede di essere amato attraverso l’amore al prossimo (Mt 25,40). Si fa trovare attraverso gli altri. C’è una potenza in questa unità lasciata alla ricerca degli uomini, alla possibile dispersione nella molteplicità, al possibile conflitto, al possibile fallimento. Ha ragione Gregorio Magno: è un progetto che richiede coraggio.

L’unità nella molteplicità si riflette nell’unità dell’edificio di una chiesa. Si oltrepassa la soglia della chiesa e ci si trova in un edificio di pietre. Le molte pietre comunicano unità, ordine, bellezza, vita. Una è la Chiesa che vi si raduna stringendosi a Lui, pietra viva: Cristo infatti è la pietra scartata che è diventata testa d’angolo. “Anche voi venite impiegati come pietre vive per la costruzione di un edificio spirituale” (1Pt 2,4-5).

Parola
Entrare in una chiesa è l’inizio della liturgia, inizio di un servizio volto alla ricerca di una unità.
Il primo momento della liturgia è la proclamazione e l’ascolto della Parola. L’ascolto è vedere e riconoscere l’unità della storia, ovvero la storia segnata dalla salvezza. La parola è mistero che si fa intellegibile, è ri-velazione ovvero è svelare e velare nuovamente. Non è un inseguirsi vano, ma un procedere continuo nella profondità dell’essere che nel frattempo si mostra. Nella prima lettera di Pietro la parola è definito latte razionale: “come bimbi appena nati desiderate ardentemente lo schietto latte razionale (logikon) per crescere con esso verso la salvezza” (1Pt 2,2). Nella liturgia, la prima unità è nella parola, e nell’intellegibilità della parola.

La liturgia per guadagnare questa unità, indica un metodo. Nella storia della filosofia molte sono state le vie tentate per raggiungere unità e rigore nella ricerca, basti pensare al dubbio metodico, ai protocolli neopositivisti, alla falsificazione, alla completezza. Ma non c’è espediente della filosofia che sia più radicale di quello indicato dalla liturgia. Infatti, all’inizio della liturgia si chiede perdono con il confiteor. E chiedere perdono è l’atto più rigorosamente teoretico che esista. Quando chiedi perdono, autenticamente, non vuoi che rimanga fuori nulla, tutto deve essere ricapitolato, nulla tralasciato. Tutto deve essere ricompreso. Nel perdono chiedi di essere nuovamente indiviso, chiedi di essere te stesso.

“Deposta dunque ogni cattiveria e ogni menzogna, ipocrisia, invidia, gelosia e ogni sorta di maldicenza come bimbi appena nati desiderate ardentemente lo schietto latte razionale della parola per crescere con esso verso la salvezza, se davvero avete iniziato a gustare che il Signore è buono” (1Pt 2,1-3).

(continua)

27 Comments

  1. Mantengo questo titolo perché, oltre a designare la situazione concreta che ha originato questo post, mi permette di circoscrivere quanto scritto dentro una cornice esplicitamente parziale. Non sono un liturgista, cerco solo di ricordare quanto della liturgia deve essere tenuto presente quando si entra in un chiesa e quando si leggono le opere d’arte sacre, ovvero liturgiche.
    Se c’è qualche errore grossolano, sono tranquillo, so che mi corrigerete.

  2. Ottimo anche il seguito!
    Direi che l’Unità e la Parola sono due degli aspetti dai quali si può partire per comprendere se una liturgia assolva o meno le funzioni che le sono proprie. Bisognerebbe chiedersi, durante la celebrazione: “siamo le pietre di uno stesso edificio”? riusciamo a vedere la Parola? E, in caso di risposte negative: che possiamo fare?

  3. Mi metti all’angolo. Da un lato, penso che l’approccio mistagogico sia quello più adeguato per far comprendere il motivo della forma della liturgia e quindi della chiesa, e riconoscere la forma fa emergere lo scarto del singolo rispetto al tutto (gli abusi liturgici penso siano anche quelle storture e incrostazioni che non fanno più riconoscere l’unità della forma).
    Dall’altro lato, constatati lo scarto, la differenza, rimane da lavorare personalmente, come minimo bisognerebbe leggere qualche libro di Antonio Royo Marin…

  4. Grazie Enrico, anche per aver ricordato qui il tuo link. Il parallelo c’è, mostrando tu la connessione tra testo biblico e soluzione architettonica.

  5. La liturgia è convocazione sacra, ovvero attuazione della natura della Chiesa: Dio chiama il suo popolo ed il suo popolo si raduna nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo (Cipriano di Cartagine).
    L’iniziativa della liturgia non è della Chiesa, ma del Dio che la convoca e la ri-unisce.
    Perciò l’essere alla ricerca di se stessi indicato come elemento che accumuna chi varca la soglia della chiesa è solo un possibile motivo secondario (dal vago sapore buddhista), non può essere l’essenza cristiana del gesto sacro di varcare la soglia.
    Si varca la soglia solo quando s’ode la Voce che mi chiama personalmente: “Mosé, Saulo, Simone…” e svela il senso del fatto che accade e la missione degli esseri creati: adorare Dio nella propria storia accogliendovi l’irruzione dell’eternità.

    Soggetto primo ed unico del celebrare è il corpo mistico di Cristo, non il ministro sacro nè l’assemblea, com’è limpidamente cantato dalle parole conclusive della preghiera eucaristica:
    “Per Cristo, con Cristo ed in Cristo,
    a te Dio Padre onnipotente,
    nell’unità dello Spirito Santo,
    ogni onore e gloria
    per tutti i secoli dei secoli.
    Amen.”

    Per Carlo Susa: bisognerebbe interrogarsi prima o dopo la celebrazione, non durante, per spostare l’attenzione dal sé che si interroga a Colui che ci interpella, per far tacere la propria voce e ascoltare la Parola, per contemplare e godere nel silenzio del canto del cosmo al Creatore e lasciarsi trascinare

  6. Caro Paolo, innanzitutto grazie perché come sempre mostri estrema attenzione a quanto riportato qui.

    Ti spiego perché ho scelto questo incipit. Credo tu sappia, la mia formazione è filosofica. Ho cercato quindi un fondamento trascendentale al motivo di entrare in chiesa, un modo di varcare la soglia che possa essere comune all’uomo in quanto uomo, anche al non cristiano. Il primo passo, ho pensato, ha da essere condizione almeno antropologica.
    Tale condizione trascendentale, se perseguita nella sua radicalità anche teoretica, ha poi fondamento ultimo ed esito completo nel trascendente: questo è il movimento dell’umano, del vir unus. Sulla soglia siamo tutti, o lo dovremmo essere, non solo nella condizione, ma nella necessità di ascoltare qualcuno che ci chiama per nome. Pena la disfatta del vir unus. Ma qui, come tu già mirabilmente dicesti, giunti a questo punto, ci troveremmo comunque di fronte a un’altra soglia, alla soglia del cuore, che conosce la libertà, non la necessità.

  7. Caro Luigi, in quanto mi scrivi, s’ode l’eco di Karl Rahner, forse il più filosofico dei grandi teologi cattolici del XX secolo: l’uomo come “uditore della parola”, o come tu scrivi “siamo tutti nella necessità di ascoltare qualcuno che ci chiama per nome”.
    Ma tale necessità universale d’essere chiamati non può essere confusa con il fatto storico di qualcuno che chiama, fatto storico che von Balthasar definisce “universale concreto”, identificandolo con il Dio che in Gesù Cristo chiama ciascuno per nome, concretamente.

    Ora non credo che la Chiesa, intesa sia come realtà teologico-spirituale che come edificio-materiale (questa il riflesso di quella), stia sul versante ipotetico della necessità antropologica universale d’essere chiamati, bensì sul versante concreto della necessità teologica di annunciare il Vangelo, ossia che Gesù Cristo è la verità dell’uomo oltre che di Dio, dando con ciò la risposta concreta, reale e storica al bisogno antropologico universale d’essere chiamati.

    Ancora. La disfatta del vir unus non si realizza solo nel caso estremo da te indicato, quando la necessità universale di ascoltare viene meno, cosa che coincide col silenzio assoluto della morte eterna. L’unità dell’uomo vien persa ben prima della sua sanzione definitiva nella morte, e non per necessità ma solo per il libero rifiuto del Bene e la libera scelta del male. Il peccato è la causa della divisione concretissima che c’è nell’uomo, tra gli uomini, con la natura e verso Dio. Peccato che è altrettanto univerale della necessità di ascoltare, e ci ricorda che la soglia può essere varcata anche come discesa, perdita, abbandono.

    Al centro della questione umana sta la libertà e cuore della libertà è il rapporto tra libertà e verità.

  8. Sgombro ogni ambiguità: la liturgia è in primo luogo è azione di Dio. Il cristianesimo trova nell’agire di Dio la propria unità; la precedenza è data alla storia che manifesta l’iniziativa concreta di Dio.

    La mia impostazione ricorda rahner e in più ho usato qui sopra il termine trascendentale? Il rahnerismo, per quello che so, diventa fuorviante quando esalta l’umano come intrinsecamente soteriologico, l’uomo si avvicina da solo alla salvezza, progredisce, l’azione di Dio è solo maiuetica. C’è in questa prospettiva una normalizzazione del tempo: il cristiano non è testimone del risorto, ma uno che progredisce nella consapevolezza della propria umano-divinità.
    A me pare di essermi fermato molto prima. Mi spiego.

    Tu dici, giustamente che la Chiesa sta “sul versante concreto della necessità teologica di annunciare il Vangelo, ossia che Gesù Cristo è la verità dell’uomo oltre che di Dio, dando con ciò la risposta concreta, reale e storica al bisogno antropologico universale d’essere chiamati”.
    Sono perfettamente d’accordo. Ma una volta dato il primato dell’azione di Dio e dato l’annuncio io posso anche indagare esplicitare che tipo di antropologia sia inscritta nell’annuncio. Tutto qui. E questo ho cercato di fare: che tipo di antropologia presuppone l’annuncio (fatto di parole e pietre), che tipo di cambiamento richiede?

  9. Io direi: la liturgia spiega cosa ci andiamo a fare in chiesa.

    Novembre, giorno 9, festa della dedicazione. Della chiesa madre di tutte le chiese d’ occidente, il Laterano (il Laterano episcopale e non il Vaticano paparegale).

    Una volta leggevamo: “In quei giorni, Salomone si pose davanti all’altare del Signore, di fronte a tutta l’assemblea di Israele, e, stese le mani verso il cielo, disse: “Signore, Dio di Israele, non c’è un Dio come te, né lassù nei cieli né quaggiù sulla terra! Tu mantieni l’alleanza e la misericordia con i tuoi servi che camminano davanti a te con tutto il cuore. Ma è proprio vero che Dio abita sulla terra? Ecco, i cieli e i cieli dei cieli non possono contenerti, tanto meno questa casa che io ho costruita! Volgiti alla preghiera del tuo servo e alla sua supplica, Signore mio Dio; ascolta il grido e la preghiera che il tuo servo oggi innalza davanti a te! Siano aperti i tuoi occhi notte e giorno verso questa casa, verso il luogo di cui hai detto: Lì sarà il mio nome! Ascolta la preghiera che il tuo servo innalza in questo luogo. Ascolta la supplica del tuo servo e di Israele tuo popolo, quando pregheranno in questo luogo. Ascoltali dal luogo della tua dimora, dal cielo; ascolta e perdona” (1Re 22-23. 27-30).

    Allora: dice la Bibbia, per bocca di Salomone, che in chiesa ci si va per pregare. Per pregare, non per ammirare architetture, paramenti o per fare gli esteti. Pregare di cosa? Di essere ascoltati e soprattutto di essere perdonati, il confiteor. Pregare chi? Un Dio che è, seguendo il testo, un Dio di popolo e non di individui, un Dio unico e solo, un Dio che viene a patti con l’ uomo, un Dio che ai patti dà senso con la misericordia, l’ amore, un Dio che nei confronti dei suoi servi, cioé dei suoi tout court, guarda al loro cuore ed alla sua indivisione o sincerità o verità. Un Dio che non è mai contenuto in un edificio, forse mai nemmeno nei cieli. Solo il suo nome, cioé la sua relazione con noi è avvicinabile.

    Sempre nella stessa festa leggevamo poi da Giovanni capitolo 4, Gesù di Nazaret che, tra l’ altro, dice magistralmente parlando con un eretica le stesse cose di Salomone: Dio è spirito, e quelli che lo adorano devono adorarlo in spirito e verità.

    Ultimamente mi pare abbiano cambiato le letture ma, come al solito, del Vangelo e del Cristo, cioé del Messia, si capisce molto e bene leggendo e commentando le Scritture. Si capisce poco e male facendoci sopra della cattiva filosofia (platonica, ellenistica o tomista che dir si voglia).

  10. Zadig, io sarei più cauto.

    Nell’Apocalisse, la Nuova Gerusalemme non ha tempio perché “in mezzo ha il trono di Dio e dell’Agnello”; le mura sono fatte delle pietre preziose che erano dell’efod di Aronne, del sommo sacerdote: lì tutto sarà tempio.

    Invece, il nostro tempo, e le nostre chiese, la stessa nostra liturgia che tu richiamavi esprimono il già e il non ancora. Calcare la mano su quel passo di Giovanni porta a una spiritualizzazione (cosa che l’evangelista del “Verbo che si è fatto carne” certo non presuppone) che ha, storicamente, già mostrato gli esiti: una delusione per le resistenze e per il male proprii della storia, ovvero per quanto è ineludibile del “non ancora”, che porta a una prospettiva di invocazione di palingenesi (come l’apocalittica ebraica tipica del I sec a.c.) attraverso mezzi più o meno secolari (si va dalle eresie dei fraticelli, ai marxismi, fino agli armageddon alieni, solo per citarne alcuni).

    Il tempo della Chiesa invece ha nella liturgia l’esplicitazione del già e non ancora. Per questo è importante come è fatta una chiesa, non per estetismi ma per la sua abitabilità. Ed è abitabile quando la chiesa non parla di sé ma testimonia l’annuncio del Vangelo. Una chiesa coniuga il già e il non ancora. Quando si entra non ci si chiude dentro, ma si apre l’universo intero con l’oriente del sole che sorge dato dalla croce absidale, dal tetto che è volta celeste… ogni pietra, ogni segno sono presenza e attesa, missione e consolazione. Una chiesa non fa vedere se stessa ma l’intero creato così come è davvero.

  11. Luigi, semplicemente grande.
    Mi sento solo di aggiungere al concetto di abitabilità della chiesa da te giustamente fondato sul dato teologico essenziale del già e non ancora, un approfondimento con il riferimento all’incarnazione come inculturazione.
    La chiesa diventa abitabile quando incarna il vangelo in una data cultura, ovvero quando assume tutta quella cultura quale medium del Vangelo.
    Questo implica la purificazione delle culture e la loro elevazione, ovvero il cammino verso la Gerusalemme celeste, appunto tra il già ed il non ancora.
    Ecco perché non c’è una sola tipologia di chiesa cristiana, ma ve ne sono più d’una, proprio come la Parola di Dio è contenuta e trasmessa integralmente in ciascuna traduzione della Bibbia, come le molteplici Eucarestie celebrate sono la presenza dei mondi all’unico evento redentore della morte di Gesù.

  12. Caro lc,

    non so, è difficile essere troppo sicuri di come il creato è davvero. Quello lo sa solo Dio, forse.

    Comunque scrivi molto bene, complimenti quindi. Ma scrivi, mi pare, di concetti. Per di più astratti. Spiritualizzazione, abitabilità, esplicitazione.

    Per cercare di farmi capire io vorrei rimanere piccolo, umile, povero di spirito. Perciò prendo in prestito le parole di un grande cardinale, nostro fratello e monsignore Jorge Mario Bergoglio di Buenos Aires.

    Egli racconta un fatto molto interessante, secondo me. Interessante perché spiega meglio di tanta dottrina come funzionano i sacramenti.

    Se essi sono i segni tangibili della Grazia, ebbene la Grazia in quel di Buenos Aires ha ritenuto sufficiente abitare in una coca-cola, dei panini e nella relazione tra un pastore la sua pecorella ed il loro Messia. E sono abbastanza certo che lì, in quel momento, di Grazia ce ne fosse a profusione.

    Di quella Chiesa Universale io sono gioioso di fare parte. Delle chiese corretamente orientate ad est e che coniugano, non saprei.

    Cordialità,

    http://www.30giorni.it/it/articolo_stampa.asp?id=21468

  13. Caro Paolo, grazie. Il tema dell’inculturazione che introduci, tema cruciale, lo vedo partecipare delle stesse condizioni di possibilità di quanto ho cercato di esprimere nel post. Sono i nostri temi, non possiamo non riprenderli.

    Caro Zadig,
    credo di intuire lo sfondo che presupponi mentre scrivi. Ma qui non si tratta di fare il pasdaràn del rubricismo e della passamaneria.

    Innanzitutto, tutti quando pensiamo, parliamo e scriviamo utilizziamo astrazioni e concetti, anche se lo facciamo di cose concretissime come un panino, un pezzo di affresco, di un gesto d’amore, della chiesa universale. E’ la nostra condizione umana.
    Le parole e i gesti poi si radicano nell’esperienza. Le parole e i gesti a loro volta sono esperienza, sono fatto concreto. E nella loro concretezza possono essere testimoni veritieri dell’esperienza. E se veritieri dell’esperienza possono riconoscere Colui che viene incontro come via, verità, vita. E possono quindi essere salutiferi. Come i sacramenti che sono segni tangibili della Grazia. Ed è dai sacramenti (così come i sacramenti dall’incarnazione) che le immagini, l’orientamento, e tutto quanto si lega all’arte liturgica, acquisiscono motivo d’essere, forza e presenza.

    Ora, mi è uscita così, è forse ho creato più problemi che spunti di chiarificazione. Ma in sintesi quello che voglio dire è: et-et, almeno fino a quando siamo umani.
    Ciao
    Luigi

  14. Caro Luigi,

    grazie della tua risposta che trovo molto interessante ed a suo modo chiarificatrice. Non so se tu abbia creato problemi. Forse li hai solo svelati, diciamo. Sono sempre molto cauto ad applicare il verbo “creare” alla nostra povera capacità.

    Per esempio, ho sentito ultimamente un tipo vantarsi che egli aveva “creato delle aziende dal nulla”. Dal nulla. Come se chi gli avrà fatto quella mattina un caffé al bar, o gli avrà a suo tempo incollato la suola alle scarpe o infine gli avrà detto “buona giornata” prima che egli uscisse di casa fossero stati il nulla.

    Quanto ai problemi, non so, mi sembra di comprendere che soggetti come quel poveretto vivano oppressi dalle loro soluzioni e non sappiano oramai più nemmeno quale problema li abiti. Con grande tristezza dobbiamo riconoscere che, come dice la Scrittura, gli uomini, me incluso purtroppo, spesso non sanno quello che fanno. E più spesso non sanno neanche quello che dicono.

    Immaginano con le parole di risolvere, di passare oltre un problema inteso come ciò che sta loro davanti, quando invece fabbricano solo uno scandalo e se lo tirano dietro inciampandoci di continuo. La ragione che non sa la carità davvero è una fabbrichetta di idoli che rende irrespirabile il soffio che ci anima.

    Grazie quindi ancora delle tue, diciamo, problematicità; ed a quando qualche riga su quello che a mio modesto avviso è per i cristiani il problema numero uno oggi, cioé l’ ecclesiologia?

    Fraternamente,
    Luca

  15. Caro Luca, sul termine creare usato in modo inopportuno è vero. In un certo modo la serie di post dal titolo “le dodici ceste” (a lato nella blogroll) è stato proprio un modo per soffermarsi sulla capacità creativa. Poi, l’inerzia delle parole è più forte.

    Sull’ecclesiologia non saprei proprio. In realtà questo blog nasce da quello che ho più o meno capito il giorno prima. E per ora questo tema che indichi non so neanche dove stia di casa… Grazie dell’attenzione che potrai dedicare a queste pagine. Luigi

  16. “A quando qualche riga su quello che a mio modesto avviso è per i cristiani il problema numero uno oggi, cioè l’ecclesiologia?”

    Caro Luca, mi sembra che tutto il BLOG tratti dell’ecclesiologia, con un taglio “estetico-teologico”: la forma (visibile) è epifania della Gloria di Dio, Gloria che risplende sul volto di Cristo e che forma la Chiesa.

    Ma non credo che per i cristiani il problema numero uno oggi sia l’ecclesiologia, bensì la preghiera, ovvero la relazione vivente con Dio.
    Questo è il senso della domanda provocatoria con cui Gesù conclude la parabola sulla necessità di pregare sempre: “Ma il figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?” (Lc 18,1-8).

    La fede può quindi venir meno quando non si prega più, quando per stanchezza si smette di dialogare con Dio, prima di ascoltarlo e poi di rispondergli. Questo rischio, presente fin dal tempo di Gesù e prima ancora, purtroppo è tragicamente attuale.

    Penso che la cosa più difficile sia convertire i cristiani, figli maggiori che spesso son rimasti a casa, servendo il padre… senza gioia, senza vita, morti viventi, parassiti della grazia, apostati silenziosi perché nella Chiesa ci sono pochi padri spirituali.

  17. Quanto dici è molto impegnativo, quanto vero, a partire da quello che hai lasciato cancellato.
    E’ sbagliato lo so, ma sarà un segno che a me ecclesiologia fa venire in mente riunioni curiali…

  18. La preghiera problema numero uno? Non so: se fatta evangelicamente nella propria stanzetta allora è un fatto tra te e Dio; se fatta in comunità è essa stessa chiesa ed allora tocca occuparsi di cosa chiesa oggi vuol dire.

    La mia idea un po’ estrema: la nostra Chiesa dovrebbe prendere uno bello scatolone ma bello grosso; scriverci sopra “NICEA-CALCEDONIA-EFESO-COSTANTINOPOLI” e metterlo in cantina con dentro tutte le bamboccerie speculative di tipo ellenistico (“homousia”, doppia natura, etc.). E poi affrontare QUESTO mondo con il Vangelo ed il Concilio Vaticano II.

    Ma forse esagero.

    L.

  19. Non esegeri, ma giungi al punto cruciale per il cristianesimo di oggi e di sempre: quale Vangelo? quale Gesù? quale Chiesa?
    Il Vangelo della Chiesa di Gesù Cristo, l’Una Santa Cattolica Apostolica che agì nei sette Concili Ecumenici (Niceno I e II, Costantinopolitano I,II, III, Efesino, Calcedonese) e solo così anche nel Vaticano II?
    O il vangelo di Marcione, di Ario, di Lutero?

    Solo se non seghiamo il ramo su cui siamo seduti (comprese le bamboccerie ellennistiche che vorresti rinchiudere in uno scatolone in cantina) possiamo affrontare questo mondo. Quelle bamboccerie sono il modo in cui la Chiesa del primo millennio ha affrontato il mondo del primo millennio per annunciare ellennisticamente il Vangelo di Dio: la Tradizione è l’estensione della democrazia ai morti, che insegnano ad amare Dio più che l’uomo, nella propria cameretta e nella chiesa. Proprio perché vuoi affrontare questo mondo con il Vangelo ed il Concilio Vaticano II, non puoi rinunziare a Nicea-Calcedonia-Efeso-Costantinopoli (e pure Lione-Costanza-Firenze-Laterano-Trento-Vaticano I). La via conciliare è una e indivisibile.

    Anche nella mia stanzetta la preghiera cristiana non è un fatto privato tra me e Dio, ma un fatto che avviene in Cristo, per Cristo e con Cristo, che la fonda e la orienta, è ecclesiale e cosmica.

    Dai tempi apostolici nella Chiesa e nel mondo si confrontano due Vangeli: quello di Gesù Cristo (che lo stesso san Paolo ha ricevuto) e quello che gli uomini si confezionano a propria misura.
    E la pietra di scandalo, ciò che distingue l’uno dall’altro vangelo, è il corpo di Cristo.

  20. Secondo me, Luca, esageri proprio.
    Non parto da un’idea di Chiesa o da qualcosa del genere. Parto da quello che si vorrebbe mandare in cantina e che io non posso mandare in cantina. E non posso non perché io ci sia affezionato, o perché ne abbia una sacra riverenza. Ma semplicemente perché se le mando in cantina me le ritrovo in soggiorno.
    Fuor di metafora, queste bamboccerie che poi sono una certa ragione e una certa metafisica hanno una loro forza, una forza come elenctica.

    Di deellenizzatori ne abbiamo visti tanti ma non è che siano stiano lì col Vangelo e i documenti del CVII in mano, nudi e crudi. No, alla fine si son messi la casacca neokantiana, o post moderna, o quella di certo personalismo. Insomma dei presupposti ci son per tutti, l’importante è esplicitarli e mantenere quelli più adeguati. E quelle risposte ellenizzanti, a volte così pretenziose, stanno ancora in piedi e più salde delle altre.
    Sempre grazie,
    Luigi

  21. Carissimo,

    esagerare non è mai stato il mio forte. Ma si vede benissimo che alle volte serve, eccome.

    Per dirne solo un’ altra: se non ci si fosse messo di mezzo fratello Martin Lutero, che tu citi, sai con cosa gireremmo in tasca noi cattolici oggi? Ti sei mai chiesto quale sarebbe l’ equivalente contemporaneo e tecnologico della vendita di indulgenze? Gireremmo con in tasca la carta magnetica della salvezza. Sì, proprio come quella dei punti del supermercato. Però made in Vaticano e, naturalmente, secondo Tradizione.

    Ma Lutero era un eretico, uno scismatico, uno scomunicato, un pessimo soggetto: un protestante. Già.

    Diceva invece Pascal, che protestante non era, che a volte sono gli scomunicati che alla fine salvano la chiesa cattolica dalle proprie scemenze. Ed porta ad esempio non il povero Lutero ma un dottore della chiesa: Teresa di Gesù. (Il riferimento è il Pensiero n. 510 nell’ edizione Le Guern).

    Tra la Tradizione formato bancomat e gli scomunicati ma santi io avrei pochi dubbi.

    Per il corpo di Cristo poi: mi basta ed avanza accostarmi ad esso ogni domenica, misteriosamente. Le parole invece di Gesù di Nazaret, quelle, mi pare faticosamente di capire, abbiano molto poco a che fare con sedersi su un ramo (“Alzatevi, andiamo via di qui” Gv 14,31) o coltivare sistemi di rappresentanza dei morti (che come occupazione pare avessero già quella di seppellirsi a vicenda). Pochissimo poi con la preghiera anche cosmica, seppure esiste, quando essa non serve ad amare, in Dio, proprio gli uomini (Mt 5,23-24).

  22. Gli eretici vanno di gran moda.
    Purtroppo anche all’interno della Chiesa.

    Anch’io ho pochi dubbi “tra la Tradizione formato bancomat e gli scomunicati ma santi”, scelgo il bancomat perché popolare e anti-elitario.
    Scelgo le scemenze della Chiesa che mi garantisce d’essere salvato da Gesù Cristo e non dagli scomunicati ma santi.

    La Tradizione come forma di democrazia aperta ai morti è una trovata geniale di Chesterton (Ortodossia).
    La Tradizione consiste nel ricevere la fede e la grazia, non nel darsela da sé. Implica fedeltà al dato ricevuto: “Vi ho trasmesso quello che anch’io ho ricevuto” scrive san Paolo. Obbliga il ricevente a trasmetterla a sua volta: “lo ripeterai ai tuoi figli – Fate questo in memoria di me”.
    Il mio Dio è il Dio di mio padre e di mio nonno, il Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe: “Non è un Dio dei morti, ma dei viventi”.

  23. Carissimo,

    grazie per la tua attenzione e la tua risposta. A quanto pare la pensiamo in modo diverso.

    Di quello che hai scritto e che ho letto spero attentamente mi colpisce molto una cosa, un verbo. “Mi garantisce”. Soprattutto se usato, se intendo bene, in rapporto alla propria fede.

    La fede qui diviene quasi, nella sua essenza, rassicurazione. Diviene un fatto conoscitivo, acquisizione di una verità. Ma allora il Dio cristiano non può che essere definito come l’ Ente sommo che diventa necessario dimostrare.

    Tutto questo ha un nome e si può chiamare, molto semplicemente, paganesimo. Insistere, come si fa, su Verità, Ragione e anti-relativismo non solo non annuncia nessun Evangelo ma, molto peggio, è un modo di ragionare che fabbrica pagani.

    Vedi, non è che a me questo tristissimo indirizzo dispiaccia perchè, come sembri credere tu, non si confà ai miei gusti personali. Proprio il contrario. Lo rifiuto e lo avverso perché è schiavo del “me stesso”. Perché è nientaltro che un “conosci te stesso”, sapienza greca travestita. Idolatria dell’ intelletto teoretico. Schiavitù alla potenza della forma. Perché in fondo in fondo dice, ed è cosa orribile, che la fede cristiana è un pensiero.

    Questo vuole portarci a credere oggi Ratzinger? Una volta disse da teologo, dopo aver assistito ai ridicoli funerali finto-medievaleggianti di Pio XII, che quella chiesa trionfante era, appunto, “una fabbrica di pagani”. Oggi da papa ha forse cambiato idea o priorità.

    Pare essersi convinto che per prima cosa i cristiani oggi debbano rimettere in riga il mondo moderno, dargli, insomma una sistemata. Proporre, appunto, il Sistema Cristiano, offrire La Grande Risposta, predicare Definizioni Dogmatiche. Diventare la succursale di Platone ed Aristotele, altro che Gesù.

    Il Rabbi di Nazaret forse invece vedeva la fede più come un atto trasformativo che conoscitivo. La sua sequela (la sua chiesa) nasceva forse più dall’ ascolto inquieto di una chiamata che da una rassicurazione. Più che parole nuove egli porta nuovi significati, una nuova misura di tutte le cose. La croce è salvezza proprio perché è paradossale, è un mutare il senso alle cose.

    Dovrebbe essere chiaro allora che la miseria dell’ uomo anche moderno non nasce da una sua incapacità di comprendere o di intuire ma, come ripete spesso il Vangelo, dall’ aridità del cuore. La miseria della Ragione non sta nella scoperta dei suoi limiti ma nella disperazione che inevitabilmente ne segue. L’ inganno della Scienza consiste non nel dire che tutto è relativo ma nel sacralizzare come unico assoluto la egotica volontà di potenza.

    Qualche studioso ha detto che dietro l’ anti-cristianesimo più radicale di Nietzsche si scorge una sua profonda invidia nei confronti del Cristo. Non vorrei che dietro la crociata anti-relativista del Vaticano si nascondesse una perversa invidia di Nietzche quale portatore di valori vincenti nel mondo di oggi. Una invidia, un peccato al quadrato che li allontana tragicamente il doppio da Gesù.

    Luca

  24. Caro Luca,
    il “mi garantisce” non è riferito alla mia fede personale, ma attraverso di essa alla Chiesa: lei mi garantisce d’essere salvato da Gesù Cristo, la Chiesa che è mia madre perché nel battesimo mi ha rigenerato in Cristo e nell’eucaristia mi offre il Cristo e l’accesso alla Trinità.

    Tutto ciò si fonda sulla fede che nascendo dall’ascolto della Parola di Dio, ha almeno tre dimensioni inscindibili:
    1. la fiducia con cui ci affidiamo integralmente a Dio o fides quae creditur
    2. la conoscenza della verità di Dio o fides qua creditur
    3. l’agire secondo la Verità conosciuta e alla quale ci siamo affidati
    Fiducia-conoscenza-opere, non una sola, né una contro l’altra, ma tutte e tre insieme queste dimensioni formano la fede.

    Certo, la fede è anche conoscenza della verità, perché altrimenti Dio ci avrebbe creati con l’intelligenza, con la capacità di conoscere la verità e di distinguere il bene dal male?
    Ma non solo. La fede è anche fiducia che rassicura, che mi permette di scendere con Pietro dalla barca e di affrontare i flutti del mare e di vincere la paura che attanaglia il cuore; altrimenti perché Dio ci avrebbe creati con un cuore che esulta davanti all’epifania della bellezza e ci fa cantare di gioia?
    Ma non solo. la fede è anche forza che mi guida nelle scelte quotidiane, è libertà donata per amare.

    A mio modesto avviso la fede non è qualcosa che c’è o non c’è, ma è la meta di un cammino: dall’incredulità e dall’idolatria alla fede, un cammino di conversione che dura tutta la vita, per passare dalle nostre paure alla fiducia in Dio, dalle nostre idee-verità alla sua idea-verità, dalle nostre incoerenze e tradimenti alla sua fedeltà che non viene mai meno e che fonda la fede umana.
    La fedeltà di Dio alla sua parola è l’unico fondamento della fede umana in lui, perciò la fede è anzitutto un dono di Dio o virtù teologale.
    E la fedeltà di Dio al mondo creato suscita e provoca una uguale fedeltà delle sue creature, cosa che definisce la fede anche una scelta.

    Tutto il resto è fuffa. Compreso Nietzsche che s’illude e ci illudiamo abbia per primo proclamato la morte di Dio operata dall’uomo. Non si accorge di ripetere ciò che il cristianesimo ha chiaro fin dalle sue origini: gli uomini, noi in primis, abbiamo ucciso Dio, l’abbiamo inchiodato ad una croce. Questa non è affatto una novità, o meglio è l’eterna novità vecchia di secoli: fino a morire per noi Dio ci ama!

  25. Non so, comunque: quanto alla messa alla Lefebvre, consiglierei di leggere l’articolo del padre gesuita Giraudo (docente presso la Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale) su La Civiltà Cattolica nel quaderno 3684/2003 (che ricordo è l’unica pubblicazione ad essere vistata dalla Santa Sede). Un piccolo assaggio:

    “Immaginiamo di entrare, durante la celebrazione della messa, in una chiesa, non importa se di città o di campagna, in una domenica qualunque, poniamo, a metà degli anni Cinquanta, o Quaranta, o anche Trenta. La fisionomia celebrativa di questi decenni è sempre la stessa, né si discosta sostanzialmente da quella dell’intero millennio cui appartengono. Notiamo subito che i fedeli hanno preso posto tutti nella navata, che una barriera, spesso munita di cancelli quasi sempre chiusi, separa dallo spazio riservato al sacerdote. Oltre quella barriera, denominata “balaustra”, nell’area che chiamano “presbiterio”, durante i riti i laici non possono andare, soprattutto le donne. Fanno eccezione gli appartenenti a quel clero in miniatura che sono i chierichetti.
    I fedeli risultano rigorosamente divisi in gruppi, per età e per sesso. Ognuno di questi, rispettando una prassi collaudata, si vede assegnato un settore preciso. Nei primi banchi si notano i più piccoli: da una parte i bambini, dall’altra le bambine. Alle loro spalle stanno i più grandi: ragazzi di qua e ragazze di là. Più indietro prendono posto le donne, numerose. D’altronde, fin dal tempo di san Paolo (cfr. At 16,13), si sa che era proprio la donna, forse perché istintivamente più religiosa, a dare corpo alle assemblee liturgiche. Tutti restano quasi sempre in ginocchio; si siedono soltanto per ascoltare la predica. Pure la comunione, distribuita alla balaustra sia prima sia dopo la messa — sia, ma non sempre, durante la messa —, è ricevuta in ginocchio.
    “E gli uomini, dove sono gli uomini?”, ci domandiamo. Alziamo lo sguardo e li vediamo in fondo alla chiesa, appoggiati alla porta o come incollati alle pareti. Gli uomini infatti sono abituati a scrutare l’altare da lontano. La sede del celebrante non la vedono neppure, perché nessuno ha mai detto loro che è importante; e poi, anche se c’è, di fatto il sacerdote non vi si siede mai. Comunque gli uomini non sono numerosi. Li abbiamo visti entrare alla spicciolata, perlopiù in ritardo. Sono là, sul limitare della loro chiesa, un po’ annoiati, in piedi, pronti a uscire, pronti a ubbidire al sacerdote non appena avrà detto Ite, missa est. Ite vuol dire “Andate”: questo latino lo capiscono bene. A dire il vero, in chiesa c’è pure un altro piccolo drappello di uomini, che però non riusciamo a scorgere perché hanno preso posto nel coro, cioè dietro la parete dell’altare monumentale, da dove poco sentono e nulla vedono.
    Che cosa fanno i fedeli? Quando c’è da cantare, cantano. Se la messa è in gregoriano, cantano tutti, con slancio, quei vocalizzi che sanno a memoria. A volte, nelle ricorrenze solenni, sono costretti a tacere, perché interviene la corale, magari quella della parrocchia accanto, con pagine grandiose, sempre a più voci. Quando non si canta, le persone semplici pregano il rosario. A quelle più progredite nelle vie dello spirito si consiglia di collegare i singoli momenti della messa con altrettanti momenti della passione del Signore. Per designare questo genere di messa meditata, alcuni parlano di “messa drammatica”, altri di “messa allegoristica”, altri ancora di missa picta, ovvero di “messa dipinta”, in quanto spesso nei libri di devozione la spiegazione è agevolata da appositi disegni che collegano i singoli momenti della messa ad altrettanti momenti della passione.
    II sacerdote, davanti all’altare, volgendo le spalle ai fedeli, “dice” messa, in latino, perlopiù con un tono di voce così sommesso che non giunge neppure agli orecchi del chierichetto di turno, inginocchiato a poca distanza. I gesti del celebrante sono calcolati, misurati. Quando dice Dominus vobiscum, allarga le braccia e subito le richiude; quando benedice, a volte sembra che fenda l’aria, con la mano di taglio e con angolazioni da goniometro.
    La messa è governata da una normativa precisa, che ogni sacerdote conosce a perfezione. Tutti celebrano allo stesso modo. Non c’è spazio per qualche adattamento. I sacerdoti neppure si sognano di poter apportare una modifica sia pur minima a quanto è stabilito. Si sono formati tutti sugli stessi manuali di rubriche, quelli cioè che contengono le regole della celebrazione. Nessuno ha studiato liturgia, perché la liturgia non è una scienza. Ai futuri sacerdoti si ripete che la liturgia è un’arte pratica, da imparare bene da qualcuno che la sa, per poi fare esattamente come fa lui. Infatti i chierici dell’ultimo anno, nei quindici giorni che precedono l’ordinazione sacerdotale, seguono un piccolo apprendistato, che alcuni chiamano corso di liturgia, nel quale imparano appunto a “dire” messa. Il sacerdote che stiamo osservando è talmente abituato a fare, che fa tutto lui: legge le letture, ovviamente in latino, spesso limitandosi a muovere le labbra; canta con voce sicura, perché le melodie le conosce bene; poi traccia tanti segni di croce. […]
    È comunque doveroso riconoscere che allora i sacerdoti “dicevano” messa con grande devozione e i cristiani “ascoltavano” la messa con sincera pietà. La fede dei nostri vecchi si è nutrita così per oltre mille anni. Anche se il richiamare alla memoria questa loro prassi può farci abbozzare un sorriso, esso non sminuisce affatto l’ammirazione e la venerazione che dobbiamo avere verso quanti ci hanno trasmesso la fede.
    Fatta questa doverosa precisazione, possiamo mostrare i gravi limiti di tale modo di celebrare. Il primo consisteva nell’iper-protagonismo del celebrante e nella conseguente passività imposta ai fedeli. Stante l’ordinamento rituale e l’indiscussa recezione che lo accreditava, lo scarto tra i ruoli non era in alcun modo colmabile. La stessa separazione del presbiterio dalla navata lo ribadiva con l’evidenza delle leggi fisiche. Il secondo limite era rappresentato dall’uso esclusivo della lingua latina, conosciuta dai sacerdoti e, in varia misura, anche dalle persone colte, ma inesorabilmente carica di mistero per i più. Il terzo limite era collegato all’applicazione scrupolosa e quasi meccanica delle rubriche, sentite come il bastone rassicurante su cui si appoggiava la mancata formazione liturgica del clero. Questa adesione incondizionata a una normativa vincolante e minuziosa faceva della prassi celebrativa una “liturgia di ferro”…”

  26. Uhm, le mie letture di Giraudo sono sufficienti a rubricare tra i meno riusciti questo scritto, soprattutto per il tono etnocentrico con cui giudica un millennio di spiritualità liturgica. Sono noti i difetti che riconosciamo al vecchio rito, ma non è certo questo il punto. E gli argomenti dell’ultimo paragrafo sono un evidente, non so quanto involontario, autogoal.

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