Testo di Luigi Codemo pubblicato nel catalogo della mostra “Nature inquiete – Sguardi d’artista sul paesaggio” realizzata presso il Museo Diocesano di Faenza e presso la GASC | Galleria d’Arte Sacra dei Contemporanei di Milano – 2020-21. La mostra, a cura di Giovanni Gardini, sedi ha esposto nelle due sedi opere di Luca Freschi, Takako Hirai, Enrico Minguzzi, Giorgia Severi.
Delle piante ti dice il nome scientifico. Genere, specie, differenza specifica. Perché si parte sempre dalla conoscenza della materia. E un’artista che rivolge lo sguardo alla natura deve avere cognizione della botanica, delle sue classificazioni, delle sue leggi. E pure della geologia. Delle rocce, delle sedimentazioni e dei millenni che si muovono uno sopra l’altro.
Giorgia Severi innanzitutto osserva, esplora, si documenta, discerne, approfondisce. Registra e archivia. E lo fa non con database e fotografie ma attraverso la propria arte. Ama soffermare la propria ricerca lì dove la natura presenta trasformazioni, alterazioni, mutazioni ma anche resistenze, ripetizioni, costanti. Lì dove cultura e ambiente si intrecciano nel paesaggio e gli equilibri si fanno precari perché esposti alle incursioni del tempo, della storia, dell’uomo. Lì dove lo sguardo dell’artista, formatosi nel restauro del mosaico, scorge lacune e cicatrici. Dedizione e cura precedono analisi e ricerca.
È forte nelle sue opere il senso delle relazioni e dei legami delle parti col tutto e quindi dell’ecologia e dell’impegno sociale che questa consapevolezza implica. Ma questi aspetti emergono come corollario di una ricerca più profonda, lontana da facili slogan. Al cuore dei suoi lavori, infatti, è ravvisabile un approccio che potremmo definire da filologa: nella natura legge un logos, un verbum, una parola che risuona e che muove la sua ricerca. La sua arte è una “filologia della natura”. Non di elementi passati, fermi, fossilizzati e schedati per sempre, perché la natura non è un armadio di essenze cristallizzate, ma luogo che manifesta una forza che connette e risuona continuamente. C’è un logos che attraversa cortecce, pietre, fili d’erba. E che è vivo e parla. L’artista mira a comprenderne tutti i significati, squadernarne le molteplici declinazioni, percepirne i diversi timbri. Ama la parola rara lì dove riecheggia. Mira a sondarne con cura gli aspetti materiali e simbolici.
Nei suoi calchi, nei suoi frottage, nei suoi disegni c’è un verbo che si fa visibile. Ed è primigenio. Precedente alla lineare B, e pure dei geroglifici. Come i suoni emessi da Adamo quando iniziò a dare nome alle cose. E che risuonano ancora. L’artista ha il compito di rivelartelo: ti siedi accanto e avverti una lingua primordiale, vedi le prime sillabazioni che hanno seguito e intonato le linee di un tronco, le vene di una roccia, i rami di un cespuglio. C’è una scrittura nella natura, la trama di una logica. Che è forza creatrice. Il gesto dell’artista accorda i propri strumenti con quelli di questo codice originario. Inclina la testa, lo legge, lo trascrive, lo esegue.
I lavori di Giorgia Severi sono brani. Frammenti che rinviano all’intero. Ogni sua opera è un’apertura. Come una mappa. Dove non ci si disperde perché attraversata dalla stessa forza creatrice che innerva l’intero creato. Infonde ai suoi lavori questo orientamento grazie alla profonda familiarità col mosaico: ogni tessera pur essendo separata, distinta, autonoma risponde sempre e comunque alle linee unitarie del cartone musivo, risponde all’intelligenza di un disegno. L’albero è già nel seme e il seme risponde all’albero che ha ancora da venire. L’intero precede la parte. Così come la vita precede le membra del corpo.
Questa corrispondenza tra il grande e il piccolo emerge quando ci si sofferma davanti alle grandi tele del ciclo About the creation (2019). Sono realizzate con la tecnica del frottage con le tele di cotone stese sulla pietra della parete Messner a Rocca Pendice sui Colli Euganei. L’opera quindi riporta una porzione di roccia, scala 1:1, con i suoi rilievi, i vuoti e le increspature. Eppure in questa limitata porzione si scorgono montagne giganti, come a dimostrazione che un pezzo di roccia sottende lo stesso ordine della montagna intera e il macrocosmo si riflette nel microcosmo. Non solo. Ad un certo punto sorge come la percezione di avere di fronte una veduta del Monte Fuji di Hokusai, non tanto l’immagine, che non c’è proprio, quanto la medesima vibrazione. La stessa che si ritrova nelle forme dei totem aborigeni o tra le braccia alzate di una caccia rupestre della Val Camonica, ma anche tra le lastre dipinte nei loro affreschi dal Ghirlandaio e dal beato Angelico.
Una è la forza creatrice che attraversa la natura e i giorni dell’uomo e queste opere la intercettano come un atlante del tempo e dello spazio. Giorgia Severi ricerca quell’ordine originario e primigenio. E la sua creatività non si trasforma solo in riflessione sulla natura, sul codice, sul logos. Ma diventa a sua volta natura, codice, logos.