Riporto qui il mio intervento al workshop “Da grande farò il curatore” organizzato da Asilo Bianco, ad Ameno il 19-21 febbraio 2016.
Arte sacra. Qui partiamo dal caso concreto della lettura e della fruizione dell’arte cristiana. Anche perché è più facile che alle nostre latitudini ci si debba misurare con progetti che coinvolgono questo tipo di testimonianze che non, ad esempio, lo sciamanesimo siberiano. Ciò non toglie che certe categorie qui utilizzate attraversino diverse culture.
1. Riconosciamo che c’è un problema, anzi due
A chi si avvicina a questo ambito e ha bisogno di riferimenti per orientarsi consiglio di partire dal discorso che Paolo VI ha rivolto agli artisti invitati nella Cappella Sistina, il 7 maggio 1964.
Il messaggio centrale di quell’incontro è stato: “sono tre secoli che Chiesa e artisti non si parlano: ricominciamo un dialogo e un’amicizia”.
I problemi messi sul tavolo in quell’occasione sono stati due: da un lato, negli ultimi tre secoli la Chiesa ha imposto agli artisti una “cappa di piombo”, costringendoli a imitare modelli, a ripetere stilemi fissi, scivolando così verso una produzione artistica stentata e accontentandosi di oleografie, madonnine stampate e surrogati vari; dall’altro, gli artisti hanno cercato nuovi lidi, anche giustamente, se non fosse che si sono chiusi dentro giochi autoreferenziali, in un’arte per l’arte presto sfibrata (“espansa” diremmo oggi), dove la facilità e la felicità dell’intuizione scade nella banalità e nella sterilità. “Avete staccato l’arte dalla vita – disse Paolo VI – ma ora è necessario trovare un nuovo punto di raccordo”.
2. Studia et labora
Questo punto di incontro può essere ritrovato facendo convergere 2 elementi costitutivi: lo studio e il laboratorio.
Il laboratorio indica la necessità di lasciare libera la singolarità, la capacità d’inventiva dell’artista. Lo studio (e precisamente la catechesi) ricorda che bisogna conoscere ciò di cui si parla.
L’inventiva e l’originalità dell’artista sono chiamate a innestarsi dentro un orizzonte di significati già dati e condivisi da una comunità. C’è un testo biblico da cui non è possibile prescindere. La parola dell’artista è parola seconda rispetto alla parola della rivelazione.
C’è quindi un codice di riferimento, che va rispettato: questo non va però inteso come un universo chiuso, ma come strumento per aprire ed esplorare l’universo.
In effetti, se guardiamo alla storia dell’arte vediamo che la creatività sorge lì dove la libertà è sfidata da un limite.
Per descrivere il sacro possiamo, allora, usare l’immagine della soglia: da un lato delimita, ma allo stesso tempo apre. La soglia è fatta per essere varcata.
Se prende il sopravvento l’elemento costitutivo codice, abbiamo le oleografie, i surrogati, la ripetizione univoca.
Se invece prende il sopravvento la singolarità dell’artista abbiamo un universo personale, magari originale, ma anche insindacabile e, in ultima analisi, incomunicabile. Non per nulla con l’arte contemporanea gli elementi paratestuali di spiegazione e di mediazione (il catalogo, il critico, le interviste…) sono aumentati a dismisura, mentre sullo sfondo risuona inconsolabile l’interrogativo di Jep Gambardella: “Che cos’è una vibrazione?”.
3. Non solo codice
Quanto visto fin qui vale non solo per la produzione artistica, ma anche per la lettura dell’opera d’arte, la sua fruizione e l’accompagnamento alla sua fruizione. Ed è questo il versante che ci interessa oggi qui in modo particolare.
Se l’elemento codice prevale sull’esperienza singolare, allora abbiamo una lettura delle opere ridotta a schemi standard, piatti e ripetitivi.Un esempio tipico è quello dei testi delle guide turistiche. Già Roland Barthes lo evidenziava bene:
“La Guida Blu [collana di guide turistiche pubblicata da Hachette in Francia] testimonia la vanità di ogni descrizione analitica, non risponde a nessuno dei problemi che un viaggiatore moderno può porsi… non rende conto di nessun fatto presente, il monumento diventa indecifrabile, perciò stupido. La guida diventa il contrario del suo stesso titolo, un mezzo di accecamento”. (Roland Barthes, Miti d’oggi, Einaudi, 1957) .
Un altro caso è quello delle didascalie descrittive che troviamo nei musei. Ne prendo una come esempio che ho letto di recente in un museo (peraltro bellissimo) che accompagna un vassoio di legno decorato con un emblema. Ecco il testo:
L’opera è attribuita alla bottega di Apollonio di Giovanni e Marco del Buono, attivo a Firenze nei decenni centrali del Quattrocento per la produzione di cassoni nuziali e oggetti d’arredo. Si tratta di un desco da parto, ovvero di un vassoio in legno dipinto su entrambe le facce che serviva a portare le vivande alle puerpere. Sul lato frontale è raffigurato il Trionfo d’Amore, soggetto tratto dai Trionfi del Petrarca; il verso reca due stemmi abrasi e un’immagine emblematica accompagnata dal motto “MEMINI”, ossia ‘ricorda’.
Fin qui va bene: si inizia a sapere che c’è di mezzo una donna che ha partorito (che ha “creato futuro”) a cui viene detto di “ricordare”. Un visitatore attento non può che dirsi: “ah, qui sto per scoprire qualcosa di bello!” Vediamo come continua…
Il desco viene accostato a quello realizzato dalla stessa bottega per la famiglia Zaccheria di Firenze e ora alla National Gallery di Londra. L’opera, documentata dal 1789 al 1792 nella collezione del marchese Alfonso Tacoli-Canacci a Modena, transitò poi in casa Tolomei a Siena e quindi nella collezione Garriod di Firenze, per entrare infine per acquisto nella sabauda nel 1855.
Ora, che tipo di visitatore si sta immaginando la didascalia? Uno che si avvicina chiedendosi: “il marchese Tacoli-Canacci ce l’aveva ancora quest’opera nel 1793?”, “ma dove l’ho già visto un vassoio simile, a Berlino o a Londra?”, “I Savoia l’avranno comprato o glielo hanno regalato?”. Se queste fossero le domande, allora sarebbe una risposta perfetta in soli 280 caratteri. È ovvio invece che questa “tortura” viene inflitta quando il codice di riferimento è la scheda del conservatore ipostatizzata a modello supremo di ogni spiegazione.
Un terzo esempio di codice che ingessa totalmente la fruizione delle opere d’arte dentro tassonomie fisse e accademiche è riscontrabile negli allestimenti museali. Il criterio che va per la maggiore è quello cronologico e geografico. La lettura del visitatore non segue il soggetto rappresentato, ma una mera successione d’archivio. Il modello fisso è quello dell’enciclopedia – o del catasto.
4. Non solo singolarità
Giustamente si è notato da tempo il limite di questo tipo di approccio e, sotto l’impulso del marketing esperienziale, si sta guardando ad una fruizione culturale più personalizzata, più partecipata, più attenta alla singolarità del fruitore.
La nuova parola d’ordine è: “l’opera d’arte deve rientrare in un’esperienza di consumo densa di emozioni, immersiva, memorabile”.
Ecco allora, ad esempio, che se il dipinto da esporre è La cena di Emmaus, l’opera verrà ambientata con la musica dell’epoca, con il profumo nella stanza del pane appena sfornato e con la possibilità di esperire al tatto una tovaglia riprodotta nel disegno e nel tessuto esattamente come quella raffigurata. Nel caso invece avessimo da valorizzare un tempio di Zeus di cui restano poche tracce archeologiche, potremmo offrire con un visore 3D la possibilità di personalizzare la visita passeggiando tra le colonne riprodotte virtualmente. E molto emozionali risultano anche le visite teatralizzate dove la guida è vestita come Giorgio Vasari o Virgilio…
È questo un approccio che fa quindi sempre più leva su aspetti ludici e di intrattenimento, sulla dimensione emotiva della fruizione.
È interessante notare che sia chi opera nell’ambito dei beni culturali sia chi opera nel marketing dei beni di consumo iniziano a ravvisare in questo approccio un forte limite. Il marketing esperienziale, infatti, tende a spingere verso esperienze che si disperdono in molte sollecitazioni, magari fatte anche bene, avvolgenti, personalizzate, emozionanti, ma che si esauriscono con l’atto d’acquisto, “esperienze a tempo”, sfuggenti, irrelate tra loro, che chiedono di essere accumulate, superficiali e, alla fine, poco significative.
5. Esperienza trasformativa
Tra gli estremi della fruizione standardizzata e l’esperienza singolare, emozionale e sfuggente, inizia a farsi spazio nel marketing il concetto guida di “trasformazione” o, meglio ancora, l’attenzione a un tipo di esperienza che deve essere trasformativa.
In pratica, si tratta di avere cura affinché le esperienze non si risolvano con l’atto d’acquisto, non siano quindi semplicemente desiderate ed accumulate, ma costitutive e capaci di tenere assieme identità e cambiamento in quanto esperienze dotate di senso.
In questa direzione, uno dei libri più lucidi e utili è Existential Marketing dove troviamo scritto:
Non è di esperienze in generale che il consumatore ha bisogno ma di risposte alle migliaia di domande che affollano la mente, questioni irrisolte che non possono essere rimandate, che riguardano la direzione da prendere, che riguardano in ultima istanza la nostra stessa esistenza (Stefano Gnasso, Paolo Iabichino, Existential marketing – I consumatori comprani, gli individui scelgono, Hoepli, 2014).
Gli autori sottolineano come cresca la ricerca di esperienze “descrivibili con la metafora del viaggio”, capaci di portare da un punto a un altro, di innescare un percorso interiore che ci vede mutare. L’arricchimento personale non avviene accatastando momenti intensi ma passando attraverso un processo trasformativo.
La riflessione sul marketing esistenziale (che tara in modo più ponderato e riorienta quello esperienziale scaturito dal testo L’economia delle esperienze di Pine e Gilmore e poi arenato nelle secche delle emozioni) risulta utile in quanto l’arte sacra cristiana è proprio questo per natura: è fatta per accompagnare in un percorso di trasformazione.
Una chiesa con la sua architettura, i dipinti, le sculture, le vetrate, i poli liturgici è una macchina da trasformazione. Basta saperla leggere: la navata incarna la metafora del viaggio così come ogni soglia (sagrato, porta, navata, scalini, altare, abside, cupola…) è una tappa, un passaggio da varcare in vista di una trasformazione della persona. Trasformazione che si attua in modo esplicito nella liturgia: infatti il luogo e il tempo dove fare esperienza dell’arte sacra non è la visita museale ma la liturgia. L’arte sacra è performativa.
Pensiamo ad un altro esempio come l’altare di Isenheim: dipinto da Grünewald per un ospedale era contemplato da malati (in particolare affetti del fuoco di S.Antonio) che potevano riconoscere se stessi nel corpo straziato di Cristo. In primo luogo vedevano che Dio non rimane estraneo al dolore. Non solo. I pannelli della pala mutavano secondo il tempo liturgico, i pazienti potevano vedere le storie dei santi che avevano affrontato i loro stessi mali e nel giorno della festa, davanti al dipinto del Risorto, potevano pregustare la guarigione: così come Dio ha condiviso il dolore, allo stesso modo sapevano che ne avrebbero condiviso la pienezza di vita. Un percorso di trasformazione che richiama le modalità riprese oggi dalla ‘medicina narrativa’.
Oppure, altro esempio ancora, pensiamo ai Sacri Monti che abbelliscono le montagne qui vicine. Sono percorsi di trasformazione, ognuno col proprio tema, ognuno col proprio viaggio.
Ultimo esempio. Se andate nella chiesa di San Fedele a Milano, troverete un itinerario di trasformazione. Lì, in più, sono state integrate in una chiesa che è del XVI secolo opere di arte contemporanea. La Corona di spine di Claudio Parmiggiani, fatta con il filo spinato, risplende della stessa luce degli antichi reliquiari d’argento. I monocromi di David Simpson incardinati nell’abside diventano anticipo dei colori della Gerusalemme Celeste. Queste opere non hanno vicino una didascalia, ma si integrano e assumono significato dal contesto in cui si trovano collocate. Diventano contemporanee di chi lì dentro fa esperienza di un percorso di trasformazione.