Prefazione allo spirito della liturgia – 3

Dalla guerra dei trent’anni, il pensiero cattolico era rimasto isolato fino a subire, specie nei paesi tedeschi, un senso di inferiorità. La cultura dominante, infatti, aveva seguito l’illuminismo francese, il romanticismo naturalistico, il criticismo kantiano, l’idealismo, il cesaropapismo della Kulturkampf, il positivismo, il marxismo. Insomma, tutte le varianti del pensiero moderno accomunate dal concepire la conoscenza come rappresentazione del soggetto. Il mondo protestante, con il suo separare natura e grazia, si trovava in questo contesto con minori problemi di adattamento.

Qualcosa cambiò all’inizio del ‘900. I limiti ormai evidenti della modernità avevano portato a riprendere e approfondire il tema “perenne” del rapporto tra essere ed essenza. Dopo tanta ubriacatura del soggetto, fu necessario il ritorno all’oggetto, o meglio, a ciò che esiste indipendentemente dall’uomo che lo pensa. Un ritorno dove il cattolicesimo aveva qualcosa da dire in quanto tenace difensore della validità del conoscere inteso come unità intenzionale con l’essere. Di qui l’emergere di nomi che hanno segnato la ricerca filosofica e teologica, tra i quali ne ricordo alcuni come Przywara, Lippert, Adam, Guardini, Hildebrand. Interessante a questo proposito ricordare quanto scrisse di alcuni di essi Gramsci, nei suoi Quaderni dal carcere:

“si preoccupano di dare soddisfazione alle esigenze che erano alla base del modernismo, ma senza cadere nelle deviazioni dell’ortodossia che furono caratteristiche del modernismo, perché in questa impostazione del problema cattolico non vi è traccia di immanentismo” (Vol. II, pp. 1265, Istituto Gramsci, 1975).

Un campo importante di riflessione era costituito dalla liturgia, anche perché, nella condizione in cui versava, risultava facilmente attaccabile dal pensiero protestante o, più ampiamente, dai modernisti. Qui, il punto centrale, era non rinchiudersi nell’opposizione tra, come li definì Przywara, “cattolicesimo della reazione” e “cattolicesimo dell’adattamento” (potremmo dire “tradizionalismo” e “modernismo”, ma sarebbe più impreciso).

In effetti, sia la posizione della reazione che quella dell’adattamento,  e questa è una mia valutazione, non uscivano dalla gabbia imposta dalla modernità.

Il cattolicesimo dell’adattamento si risolveva in un generico immanentismo che comportava una spiritualizzazione della fede e una scarnificazione della liturgia. Una posizione che assumeva esplicitamente tutti i presupposti della modernità.

Il cattolicesimo della reazione, anche se lo negava, si era chiuso dentro una rappresentazione che, di fatto, risultava moderna. Svuotamento delle parole, segni inespressivi, tempi liturgici arbitrari, schematicità dell’azione, rubriche che citano rubriche, devozionismi intraliturgici: la liturgia era fatta di segni che avevano perduto riferimento alla realtà celebrata. La validità della liturgia era data dalla correttezza formale interna alla rappresentazione. Insomma, in ultima analisi, un modernismo tradizionale.

Ricordo a questo proposito un esempio. C’è un passo di Ratzinger nel libro “La festa della fede” dove parla dell’orientamento e di certe locuzioni, utilizzate perlomeno dal XIX secolo, come “celebrare alla parete”, “celebrare al tabernacolo” che facevano intendere come l’antico orientamento della celebrazione fosse divenuto ormai inespressivo. Ed è partendo da questa situazione che diventa comprensibile un certo modo di agire dopo il Concilio Vaticano II: «la trionfale vittoria del nuovo orientamento nella celebrazione va spiegata soltanto sullo sfondo di questo malinteso, che senza alcun ordine tassativo (o appunto per questo) si è imposto con un’unanimità e una sollecitudine che non sarebbero nemmeno pensabili senza la perdita del significato della prassi seguita fino allora» (pag. 132, Jaca Book, 1983).

Per ricapitolare, possiamo dire che, ad inizio ‘900, c’è il tentativo di uscire dalle pastoie contrapposte di “reazione ed adattamento”. La mia impressione è che più che lo “Lo spirito della liturgia” sia stato un altro libro di Guardini, “I santi Segni”, a destare diffusamente gli animi nell’ambito del movimento liturgico. Perché lo si trova citato ovunque tra i contemporanei non solo con entusiasmo ma con un vivo senso di scoperta. E soprattutto perché contiene un messaggio meno teorico, facilmente comprensibile e centrato proprio sul riporre una corrispondenza tra segno e realtà significata. Un libro che “ritorna all’oggetto”. Un breve trattato di tomismo liturgico, dove il segno riacquista un rapporto intenzionale con l’essere, senza la pretesa di esaurirne il significato.

Lo sbocco di questo processo fu quello di individuare e definire la “forma essenziale” della messa.

Si trattava, all’interno delle molteplici e stratificate cerimonie, di «riconoscere la forma generale e portante che in quanto tale è contemporaneamente la chiave per giungere alla sostanza dell’evento eucaristico. Questa forma generale poteva poi divenire anche la leva della riforma: a partire da qui bisognava domandarsi quali preghiere e quali gesti sono da considerare delle aggiunte secondarie che impediscono piuttosto che aprire l’accesso alla forma, quello dunque che bisognava eliminare e quello che bisognava rafforzare. Con il concetto di ‘forma’ era entrata nel dialogo teologico una categoria sconosciuta la cui dinamica riformatrice era innegabile […]. L’esplosività del procedimento diviene pienamente chiara se ci chiediamo come venne delimitato il contenuto della forma fondamentale» (J. Ratzinger, La festa della fede, p. 38, 1983).

La tesi che prevalse fu che la forma portante fosse quella del pasto, del convito, in quanto l’Ultima Cena è la celebrazione eucaristica esemplare. Tesi che troviamo affermata anche da Guardini. Tesi che se assolutizzata e resa esclusiva diventa problematica. E problematiche sono le chiese che sorgono riflettendo nella propria struttura architettonica una concezione della liturgia che ha nel pasto la propria “forma portante”.

Si iniziò, allora, una fase nella quale siamo ancora immersi.

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