“Lo Spirito della Liturgia” di Romano Guardini è stato pubblicato in italiano nel 1930 dalla Morcelliana nella “Collezione ‘Fides’ a cura della Opera Pontificia per la Preservazione della Fede”. Come è emerso nel post precedente, l’urgenza di quegli anni era rispondere al protestantesimo.
Una motivazione era contingente. Nel 1929 erano stati firmati i Patti Lateranensi. E, contestualmente, nel 1930, un regio decreto riordinava i “Rapporti tra i culti acattolici e lo Stato”. Il che portò a un nuovo fermento nelle diverse chiese protestanti in quanto da “tollerate” diventavano “ammesse”, lasciando loro il libero esercizio sul territorio italiano. Cosa non da poco visto che in molti paesi nordici questo non era permesso ai cattolici.
Pio XI reagì dando nuovo impulso all’Opera per la Preservazione della Fede (fondata, nel 1902, da Leone XIII): la eresse in ‘Pontificia Opera’ e le assegnò anche il compito di provvedere di nuove chiese la città di Roma che attraversava una fase di espansione urbanistica. A capo dell’Opera ci mise il Cardinale Francesco Marchetti-Selvaggiani e tra i dirigenti troviamo anche quel padre Bevilacqua che ha scritto la prefazione al libro di Guardini.
Ora, sebbene l’Italia sia sempre stata una meta simbolica per la predicazione protestante, non ci fu mai il rischio di una “presa di Roma”. Igino Giordani, direttore di Fides, la rivista dell’”Opera Pontificia per la Preservazione della Fede”, così scriveva in un libretto del 1931:
«In tale circostanza, queste chiese [protestanti] ebbero una quantità d’operai tra le mani per dissodar la vigna. Ma fu come zappar nella roccia. Picchia e scassa, estirparono scintille e graffiarono ronchioni; ma non riuscirono a piantar un cavolfiore riformato. Fecero in compenso molto fracasso, che, sommato alle gazzarre massoniche delle Logge, le quali salvano la Patria ogni ventiquattro ore alimentando la lotta civile contro il prete, poté dare a qualche farmacista subappenninico l’illusione che in Italia il pensiero si riformasse… Qualche finanziatore d’America, paese dove vigoreggiano accanto ai business men e ai cervelli quadri anche le fondatrici di religioni e i benefattori a casaccio, si sentì svellere sensi d’emozione e giolito… Peraltro reclamisticamente l’assicurazione era bene congegnata e certo avrà pompato fior di dollari, quantunque solo nella testa occidua d’un ministro disimpegnato dìogni senso storico potesse penetrare l’idea d’una separazione del popolo italiano da Roma: come a dire del corpo dalla testa, che è un’operazione, anche metodisticamente, difficile» (Igino Giordani, I protestanti alla conquista d’Italia, Vita e Pensiero, 1931).
Igino Giordani poteva permettersi questo tono ironico e baldanzoso perché la Riforma in Italia continuava a rimanere estremamente marginale. Le diverse confessioni della riforma non agivano unitariamente, anzi continuavano a sminuzzarsi.
Quanto invece preoccupava del protestantesimo era il suo trasformarsi in agenzia religiosa della modernità, promotrice di «una religiosità sfumata… dove Cristo sta vicino a Liaotsè… adatta allo smercio degli specifici filosofici più in voga, cambiando la merce ad ogni mutar di stagione…» (Giordani, 1931). Non preoccupavano quindi gli aspetti organizzativi, ma quella tendenza del protestantesimo a trasformarsi, per via di quel “libero esame” non ben temperato nella tradizione, in soggettivismo, in arbitrio, in individualismo e, infine, nell’“indifferentismo”. Il protestantesimo preoccupava per quel rivestire con l’abito religioso la modernità. Dove il problema non è tanto l’applicazione del metodo storico-critico all’interpretazione della Sacra Scrittura, ma il suo utilizzo dentro un sistema che ha già operato un’indebita separazione tra fede e ragione, grazia e natura, giustificazione e santità, religione e morale. Il problema è la conoscenza blindata nelle maglie della rappresentazione soggettiva, è la verità ridotta a esattezza.
Nell’introduzione scritta da Mario Bendiscioli all’edizione del 1930 de “Lo spirito della liturgia” emerge bene come l’opera di Guardini costituisca una risposta viva ai limiti e alle aporie del pensiero moderno e in modo particolare quando questo ha preteso di applicarsi alla liturgia.
«In quali condizioni si trova l’uomo moderno rispetto alle cose, alla comunità, alla Chiesa? Egli non le comprende più adeguatamente: o le violenta ai fini particolari che non sono propri delle cose, o ne misconosce il valore, oppure non vi si adatta. Bisogna dunque riesaminarle da vicino queste cose, ponderatamente, con grande serietà: e questo a cominciar dalle realtà più imponenti e più facilmente fraintese. E che cosa è più grande della Chiesa e della sua liturgia e cosa è più frainteso di quest’ultima? Ecco pertanto il Guardini in “Spirito della liturgia” spiegare all’uomo moderno essenza e senso dell’opus Dei, movendo dal concetto di Chiesa quale “Corpus Christi mysticum”, con lunghe apparenti digressioni sul valore di “simbolo” delle cose, sulla distinzione di “senso” e di “scopo” con esempi tratti dalla cultura profana (si accenna perfino ad Ibsen, a Sofocle). La liturgia riesce così non semplicemente giustificata come culto comune della Chiesa in quanto unità super-personale dei credenti in Gesù, ma anche elevata a forma essenziale dell’educazione umana nell’uso delle cose, nelle relazioni cogli uomini. […]
Egli vuole ridestare il senso delle cose, come quello delle parole che debbono esprimere realtà interiori od esteriori, per il profondo rispetto che ha dell’opera divina e della dignità umana.
Usa anzi vivacissime parole per condannare “lo svuotamento della parola, schematicità dell’agire, la vanificazione del segno” soprattutto perché ciò ha contaminato le parole e le forme della Chiesa: a queste vuol soprattutto restituire il loro senso affinché lascino “vedere la realtà che dietro essa giace”. Ed è la sua formazione scolastica che gli suggerisce qui l’atteggiamento fondamentale: l’uomo nell’agire come nel parlare deve essere “wesensgerecht”, deve rispettare l’essenza propria e delle cose, adeguarsi alla medesima» (pagg. XL-XLVI, 1930).
(continua)