Il breve elenco è questo. La ragione è potente, ma non arriva più in là di un tiro di schioppo. La ragione è meretrice, e si vende di volta in volta al più forte. La ragione incasella tutto quanto capita sottomano, ma senza mai poter uscire di casa. Perché essere e pensiero sono separati l’uno all’altro. Cosa ci sia là fuori, la ragione non lo sa più. Storia e natura se le fa in casa. E, ad un certo punto, col massimo rigore del proprio presupposto, afferma che non c’è nessun fuori, perché quanto incasella è comunque casa. Tutto, quindi, è home made, fatto in casa.
Questa è l’estrema sintesi della modernità, più o meno da Lutero a Hegel.
Da allora si è perlopiù continuato a pensare che conoscere altro non sia che conoscere la propria rappresentazione della realtà. Alla fin fine, si gira sempre attorno a Hegel, ma fiaccandolo.
Va da sé che con un simile andazzo, l’annuncio storico, la buona novella, non possa che perdersi. Sola fide. Rimangono parole senza carne. Nella lettera citata, Bonhoeffer constata che, date le premesse, gli rimangono solo parole mute. Poi cerca di indicare qualcosa che possa resistere e perdurare: la preghiera e il fare ciò che è giusto. Ma anche questo equivale a dire che rimane ben poco, una prassi. Uno sforzo destinato a esaurirsi presto: quale preghiera, infatti, è possibile se il nome da invocare e ringraziare è ormai vuoto? e quale giustizia, se ‘voluzione dopo ‘voluzione il tempo nel quale restituire il giusto si disgrega?
L’avvento lascia il posto al divenire (o al suo parente oscuro, l’accadere heideggeriano). Così è, se si rimane dentro il presupposto della modernità, ovvero se si afferma che essere e pensiero sono separati; se si ammette un ordine naturale che preesiste al pensiero e che ottiene il proprio statuto in quanto distinto dal pensiero.
Già abbiamo visto un altro modo di intendere la conoscenza, l’essere e il pensiero. Ma ora lo ripropongo attraverso le parole di Shakespeare pronunciate da Enrico V nella celebre scena che precede la battaglia di Agincourt. Qui la memoria è viva, perché la parola è carne. Qui le cicatrici sono convocate come testimoni. Qui si offre un banchetto perché quanto avvenne sarà forma del presente e compimento del futuro. Qui l’uomo si eleva e si nobilita perché gli è dato un tempo fedele. E le parole domestiche possono esser consegnate, senza tradirle, ai figli. Qui coloro che testimoniano sono contemporanei alle ferite. E per questo fratelli.
Oggi è la festa dei Santi Crispino e Crispiano.
Chi sopravviverà a quest’oggi e tornerà a casa, si leverà sulle punte sentendo nominare questo giorno e si farà più grande al nome di Crispiano. Chi non morirà oggi e vivrà sino alla vecchiaia, ogni anno, alla vigilia, offrirà un banchetto e dirà: “Domani è San Crispiano”. Poi tirerà su la manica e mostrerà le cicatrici e dirà: “Queste ferite le ho ricevute il giorno di San Crispino”. I vecchi dimenticano, ed egli come tutti dimenticherà tutto il resto, ma con grande fierezza ricorderà le gesta di quel giorno. E allora i nostri nomi, a lui familiari come parole domestiche, re Enrico, Bedford e Exeter, Warwick e Talbot, Salisbury e Gloucester, saranno nei suoi brindisi rammentati e rivivranno questa storia. Ogni brav’uomo la racconterà a suo figlio. E sino alla fine del mondo il giorno dei Santi Crispino e Crispiano non passerà senza che vengano menzionati i nostri nomi. Noi pochi, noi felici pochi, noi manipolo di fratelli; poiché chi oggi verserà il suo sangue con me sarà mio fratello, e per quanto umile la sua condizione sarà da questo giorno elevata: e tanti gentiluomini che dormono ora nei loro letti in Inghilterra malediranno se stessi per non essere stati qui oggi, e non parrà loro neanche di essere uomini quando parleranno con chi avrà combattuto con noi questo giorno di San Crispino (Enrico V, IV.iii).
[La scena, tratta dal film di Kenneth Branagh, è visibile nella widget dei video qui nella colonna a lato; la scena citata parte al 1′.08″]