Oggi, giorno del tuo battesimo, saranno pronunciate su di te le antiche, grandi parole dell’annuncio cristiano senza che tu ne comprenda nulla. Ma anche noi siamo di nuovo rinviati proprio agli inizi del comprendere. Che cosa significhino riconciliazione e redenzione, nuova nascita e Spirito Santo, amore dei nemici, croce e risurrezione, vita in Cristo e sequela di Cristo – tutto questo è così difficile e così lontano che quasi non osiamo più parlarne. Nelle parole e nei gesti tramandataci noi intuiamo qualcosa di totalmente nuovo, qualcosa che sta rivoluzionandosi completamente senza poterlo ancora afferrare ed esprimere.
Le parole d’un tempo devono perdere la loro forza e ammutolire, e il nostro essere cristiani consisterà oggi solo in due cose: pregare e praticare ciò che è giusto tra gli uomini. Non è nostro compito predire il giorno ma quel giorno verrà in cui degli uomini saranno chiamati nuovamente a pronunciare la parola “Dio” in modo tale che il mondo ne sarà cambiato e rinnovato. Sarà un linguaggio nuovo, forse completamente non religioso, ma capace di liberare e di redimere, come il linguaggio di Gesù tanto che gli uomini ne saranno spaventati e tuttavia vinti dalla sua potenza. Il linguaggio di una nuova giustizia e di una nuova verità, un linguaggio che annuncia la pace di Dio con gli uomini e la vicinanza del suo regno. Fino ad allora la causa dei cristiani sarà silenziosa e nascosta ma ci saranno uomini che pregheranno, opereranno ciò che è giusto e attenderanno il tempo di Dio (Dietrich Bonhoeffer, Lettera del 1944 per il battesimo del figlio dell’amico Bethge, in Resistenza e resa).
Premessa necessaria. Non si tratta qui di discutere Bonhoeffer, il cui pensiero va ben oltre questo frammento. Queste righe sono tratte da una lettera scritta nel 1944, quando era già prigioniero nel carcere di Tegel. Di lì a poco morirà impiccato per aver avversato la barbarie nazista. Quello che mi interessa è l’utilizzo di queste righe, la sopravvivenza del frammento in mani altrui, l’appropriazione che ne è stata fatta dentro contesti diversi da quello originario.
Quello che mi interessa è come l’appropriazione di queste frasi porti a considerare l’incarnazione di Dio come lontana. Ciò che le nostre mani hanno toccato (1Gv 1,1) risulta ormai irraggiungibile. Di Cristo sono rimaste alcune parole, un tempo grandi, ma oggi estinte. Ciò che noi abbiamo udito è dissolto e ormai incomprensibile. Di Cristo, il Verbo di vita, è rimasto prima il messaggio senza il mezzo, senza corpo, poi parole senza messaggio. Infine, suoni che tintinnano senza parole.
Il tempo, quindi, comporterebbe un decadimento, l’esaurirsi di una forza. Un moto entropico ineluttabile. Ammesso che Dio sia il Verbo di Vita, ne rimarrebbe solo un’eco lontana. Anzi, sarebbe meglio che ammutolisse del tutto, affinché possa giungere presto “il nuovo”, un linguaggio totalmente nuovo. Un nuovo verbo di vita.
Mi pare che, pur mantenendo le profonde differenze tra i due autori, il testo di Bonhoeffer mostri una certa comunanza con il pensiero di Heidegger. Ricordo, per un rapido paragone, lo schema heideggeriano: l’essere si dà nel linguaggio, l’essere non è che linguaggio; il linguaggio si esaurisce e, una volta esaurito, accade che cambi, accade la novità che appare senza che debba rispondere a nessuno del proprio apparire.
Ad essere più precisi, mi pare che questo testo di Resistenza e resa mostri la breccia attraverso cui il pensiero di Heidegger sia considerato percorribile in ambito cristiano. Partendo da un un po’ lontano, il presupposto di questa breccia è questo: la ragione sarebbe solo la ragione moderna. E se questa è l’unica possibile non può che risultare violenta nella sua volontà di potenza, nella pretesa di esaurire l’essere tramite il calcolo e il dominio dell’origine della vita. L’accesso all’essere, alla sua differenza, al suo mistero non può che avvenire tramite vie altre dalla ragione. Il presupposto è quindi considerare la ragione moderna come l’unica possibile; dimenticare la riflessione tomista; schiacciare la metafisica su come la riporta Nietzsche.
Quando la riflessione cristiana accetta questi presupposti viene da sé quell’illusione che la attraversa da almeno quarant’anni: vedere nella via heideggeriana un traccia da ricalcare. Il sostrato teoretico da cui ripartire sarebbe questo: se Heidegger cerca nella poesia la via all’essere che scavalca la ragione moderna, i cristiani possono accedere al mistero attraverso l’affidamento, attraverso il salto della sola fede; forse che la rivelazione non inizia con Abramo che parte verso la terra promessa, verso l’ignoto, verso il linguaggio nuovo?
Il centro del problema, dunque, è come parlare della novità che accade. Se seguiamo in termini rigorosi le parole di Bonhoeffer e se seguiamo le suggestioni di Heidegger, quel nuovo che accade può essere tutto e il contrario di tutto: ciò che nutre e ciò che divora, benedizione e maledizione.
A dire il vero, Heidegger con Holderlin sa che la sua attesa del nuovo presuppone una terra e un sangue pagani. Sono i cristiani che attendono impropriamente, nella misura in cui ricalcano lo schema heideggeriano, misericordia, pace e liberazione. Infatti, il totalmente nuovo che accade è indifferente alle infinite possibilità secondo cui l’essere può accadere. Il totalmente nuovo non ha paternità e non può rivelare un Dio Padre.
Da parte mia, non credo che il cristiano attenda al mistero (la custodia della differenza dell’essere, in termini heideggeriani) attendendo il nuovo, ma piuttosto attendendo il non ancora. Il “non ancora” testimoniato da “ciò che c’è già ora”. Già e non ancora.
Senza dubbio, il cristianesimo è un avvenimento, è accadimento, è grazia, ed è imprevedibilità. E’ parola che si dona liberamente. Ma è anche parola che accade rispondendo. La storia della salvezza è Dio che attende all’uomo. Questo è il già che va serbato. Parola congrua, di volta in volta. Parola che ha preso forma, spazio e tempo. Che si è incarnata. Una parola in qualche modo attesa dalla carne e che accadendo ha risposto in modo inedito al destino. Parola nuova, lo ripeto, non perché arbitraria e indifferente alle infinite possibilità secondo cui l’essere può accadere. Ma parola nuova perché ha risposto all’attesa e ha assunto un volto da conoscere che si offre all’amicizia. Nuova perché mostra senza nascondimento il mistero dell’infinito nel finito.