Incessantemente, il logos ritrova confidenza con l’essere, riconoscendone il mistero. Un rapporto di affinità fatto di dono e custodia. Questo, in breve, quanto detto fin qui. Ovviamente, non tutti affermano questo. C’è chi invece vede il logos restare estraneo all’essere nonostante ogni tentativo di avvicinamento. In questa direzione, cruciale per i suoi ampi risvolti rimane l’opera La nascita della tragedia di Friedrich Nietzsche.

“Lo sviluppo dell’arte è legato alla duplicità dell’apollineo e del dionisiaco”. L’invito del filosofo è di sacrificare nel tempio delle due divinità: Apollo, il dio delfico, e Dioniso, il dio che sconfina dalla Tracia. Ma Nietzsche ricorderà sempre ai suoi lettori che la bella fiamma sull’ara del sacrificio s’innalza dalla combustione di vesciche e cartilagini (vd. Chimica delle idee e dei sentimenti in Umano, troppo umano). In principio era la fisiologia: prima ancora del dionisiaco e dell’apollineo per Nietzsche ci sono ebbrezza e sogno. Impulsi non gestibili.

Dioniso rapisce violando il principium individuationis. In un eccesso di danza sfrenata, secrezioni orgiastiche, bulimia, il posseduto dal dio dimentica se stesso, non distingue più soggetto e oggetto, lacera il velo di separazione, infrange ogni delimitazione, diventa una cosa sola con l’uno originario, con quella morsa di tutte le contraddizioni, con quel misto primigenio di crudeltà e voluttà.
Ma se Dioniso annienta, Apollo, dio della misura, lo contrasta e lo limita. Lo lascia scorazzare, sottraendogli però le armi più devastatrici. Apollo è il dio delle forme e del sogno, dell’illusione e dell’inganno. Non meno implacabile, è potenza concentrata: quando colpisce, lo fa con la precisione dell’arco e della freccia.
Plutarco ci assicura che la sovranità è divisa tra i due dèi.

Fin qui Nietzsche e non starò ora a ripetere le pagine dove espone quella copula (“miracoloso atto metafisico della volontà ellenica”) che ha portato a produrre l’opera d’arte altrettanto dionisiaca che apollinea della tragedia attica. Mi interessa, invece, evidenziare quella sorta di percorso che, nelle pagine di Nietzsche, compie l’artista.

Fondamentale è sapere che il dionisiaco da solo non produce arte, non produce nulla di determinato. L’artista dionisiaco non è propriamente un artista, semmai è la stessa opera d’arte. L’artista dionisiaco è quello che diventa una cosa sola con l’uno originario, quel coacervo contraddittorio, senza immagine, che rimane inesplicabile, irrappresentabile perché inconcepibile. Solo quando Apollo si accosta all’artista dionisiaco e lo tocca con l’alloro, solo in questo momento, sprizzano scintille d’immagini. Con Apollo il conato primigenio di energia si libera in immagini delimitate, in illusioni riconoscibili (ad essere rigorosi, potremmo aggiungere che Dioniso stesso, pur essendoci da sempre, risulta riconoscibile, lui con tutto il suo corteo di menadi invasate, solo quando ce lo permette la mediazione di Apollo: senza questa, del suo passaggio se ne avrebbe notizia solo dalle tracce abbandonate di banchetto e di desolazione).

Nietzsche, nei suoi scritti, altro non farà che tornare e ritornare sempre su questa origine, su questa morsa, su questo uno primigenio e contraddittorio, su questo uno irrisolto come una dissonanza, e insostenibile fino a quando il velo dell’illusione di Apollo non lo benda, lo limita e lo rende perfino piacevole. A cogliere questa profondità c’è l’esperienza fisiologica, ebbrezza e sogno. Il logos, invece, ne risulta piuttosto escluso. Ma poiché è difficile procedere escludendo totalmente il logos, la scappatoia più efficace consiste nella sua riduzione a caricatura di se stesso: mascherare il logos per renderlo meschino e perciò innocuo. Nietzsche, infatti, per lasciare indisturbata la propria fisiologia, maschera il logos utilizzando la sagoma di Socrate. Fuori dalla grande tragedia, fuori dalla scena su cui si muovono ebbrezza e sogno, Nietzsche mette in scena l’osceno utilizzando il brutto, ridicolo e decadente Socrate. L’osceno è calcato dal logos che recita come se fosse nient’altro che l’intellettualismo socratico.

Con Nascita della tragedia, Nietzsche inaugura la sua opera di simulazione e fa indossare alla ragione la maschera di Socrate, ovvero quella dell’uomo teoretico che chiude il pensiero nelle serie causali, nei meccanismi, nella pretesa di correggere l’essere stesso invece di viverlo, di volerlo, di amarlo nel fato. E’ la maschera di Socrate morente che si sottrae al terrore della morte con i ragionamenti sillogistici; Socrate che scappa dallo sguardo sul tremendum inesplicabile per rintanarsi nella logica, per fare del sapere una virtù, per ridurre l’errore alla innocente ignoranza; Socrate che, contro natura, fa del sapiente un felice. Socrate il logico che porta il proprio discepolo più diligente a bruciare le poesie.

Nietzsche è il più moderno, più della tarda scolastica, più di Cartesio, più di Kant, più di tutti. Toglie al logos il mistero dell’essere per affidarlo alla fisiologia; e altri lo seguiranno affidandolo, di volta in volta, alla poesia, alla mistica, al silenzio, al nulla.


7 risposte a “Via pulchritudinis – 8”

  1. Avatar CarloS
    CarloS

    Da quel che mi ricordo del libro e degli scritti “affini” di Nietzsche, mi sembra un post magistrale per sintesi ad efficacia. Nel teatro del Novecento sarà Artaud a portare avanti questo “discorso fisiologico” nietzscheano, cercando – senza successo – di sublimare il corpo nelle esperienze di possessione. Se Nietzsche evoca il Dioniso classico, Artaud cerca di attraversare i ‘dionisismi’ delle culture arcaiche, magiche e ‘animiste’.

  2. Avatar lc

    In effetti vorrei passare in rassegna alcuni ‘dionisismi’ per avvicinarci ai nostri giorni.
    Artaud ne è un esempio magistrale. In che senso, quindi, vedi una non riuscita nel teatro di Artaud? In cosa quel “senza successo che sottolinei?

  3. Avatar CarloS
    CarloS

    Riprendendo il tuo discorso, il suo teatro è “puramente dionisiaco” e, come tale, sbarra la strada ad Apollo. Per questo rimase solo sulla carta come suggestione: Artaud è autore di un testo drammatico, di pochissime regie e di un radiodramma; ma lui stessso si lamentava del fatto che nelle cose che aveva fatto sulla scena non c’era quasi nulla del teatro che aveva in testa [una parziale eccezione è rappresentata dalla sua ultima opera, il radiodramma “Pour en finir avec le jugement de dieu”, che però – appunto – non è uno spettacolo teatrale, ma una sorta di “concerto per voci”]. Il paradosso di Artaud è che, a differenza di tutti i grandi teatranti della storia, la forza del suo teatro sta proprio nel fatto di non essersi mai realizzato. Sognava di fare del teatro quello che la peste era per Dioniso; ma la sua malattia di vita non era infettiva. L’”artaudianesimo” è iniziato una decida d’anni dopo la sua morte. I suoi “discepoli” non hanno mai potuto imparare da lui un modo di fare teatro (né, ovviamente, avrebbero potuto quando lui era in vita), ma solo leggere i suoi scritti, venirne suggestionati, e interpretarli a loro modo. Ecco…: l’unico aspetto apollineo del teatro di Artaud è la forma oracolare!

  4. Avatar lc

    Grazie, Carlo. Ho trovato questo esempio diretto.

    L’indicazione che si tratta di una “forma oracolare” rende bene. Perché il testo rimane, alla fine, solo nel paratesto. Elemento che via via ha inglobato l’opera. Infatti, il titolo, il comunicato stampa, il depliant risultano più “esposti” dell’attività artistica in sè.

  5. Avatar biz

    Impressionante il documento di Artaud. Due cose mi sono venute in mente, che forse non c’entrano con tutto il discorso.
    1) chiaramente il quel testo recitato promana un senso di malattia che è in qualche modo evidente. E’ un po’ lo stesso senso che evidentemente ci appare in altri documenti “artistici” del ‘900 (penso soprattutto agli azionisti viennesi, forse il punto più basso mai “messo in scena” – esiste un rapporto da esplorare fra arte della performance e teatro, in effetti.
    2) Che Dio effettivamente può, in un certo senso, davvero morire (che poi sia una eclisse e non una morte è un dato assoluto, mentre per gli uomini, che sono invece un po’ relativi, può non esserci differenza, in un certo senso, fra eclissi e morte) Tema teologico trattato spesso, tra l’altro, in quegli anni davvero un po’ tenebrosi.

  6. Avatar biz

    Ho segnalato questo interessante post e la segnalazione del filmato di Artaud nel mio ultimo biz-zarro scritto.
    Citato anche CarloS.
    Solo perchè magari per vie ellittiche chissà potrebbe servirti (o almeno farti ridere per la pochezza dello scrittore), ti segnalo un mio vecchio scritto dove avevo parlato di questa divisione del primo Nietzsche fra apollineo e dionisiaco, certamente meno rigoroso e preciso del tuo, e un po’ estemporaneo come mio solito http://bizblog.blog.lastampa.it/il_mio_weblog/2007/03/nientaltro_che_.html

  7. Avatar renzo

    caro Luigi, credo che questo sia uno dei post più belli che tu abbia scritto. Ha ragione Carlos: è una sintesi davvero magistrale.

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