Dio è già sempre prima. O perlomeno lo è l’assoluto. E’ il primato dell’essere sul non essere. Per cui, se giri la testa, la giri perché quanto vedi è mancante e rinvia ad altro; la giri perché è chiamata dall’essere nella sua pienezza. Non è questione di desiderio o di qualche esigenza psicologica, ma di necessità di cogliere il reale in modo non contraddittorio. L’essere che si manifesta come ente è relativo ad altro, chiama altro. E questo altro che è assente e allo stesso tempo necessariamente presente ci porta a girare il collo, ci fa muovere i piedi, girare gli occhi, coniugare idee, inanellare parole. Si va oltre perché il tutto precede la parte.
Si può tentare di inseguire la completezza, accumulando. Come nello shopping (una sorta di declinazione compulsiva dell’empirismo). Oppure per sottrazione, come nel monotono roteare dei dervisci che sfinisce le parti per evocare il tutto, per arrivare al punto fermo, allo zero baricentrico che fa balenare l’unità incontraddittoria. In entrambi questi due esempi è uno sforzo: l’assoluto è cercato oltre lo stacco della propria rincorsa; è un momento di apnea. Alla lunga entrambi risultano insostenibili.
C’è anche un modo di procedere che risulta più umano, anzi che risulta umano in modo distintivo. E’ il metodo dell’esperienza unita all’ipotesi. Più semplicemente, lo si può definire anche come il metodo dello scoprire, dell’approfondire e dello spiegare, dove il mistero è svelato senza cessare di essere ancora mistero. L’assoluto si lascia percorrere ma non rinchiudere. E’ il metodo dell’unità e della differenza, dell’analogia e della trascendenza. E’ il metodo che, riconoscendo che il tutto precede la parte, si carica di tutto l’umano possibile per dirigersi verso quella pienezza, quella completezza, verso l’assoluto.
Ci sono dei passi della tradizione biblica che ricordano la necessità di questa tensione verso l’assoluto. Il primo lo troviamo nel Levitico e dice:
Siate santi, perché io, il Signore, Dio vostro, sono santo (Le 19,2).
Questo passo poi lo si ritrova nel Vangelo di Matteo:
Siate voi dunque perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste (Mt 5,48).
Qui la santità viene esplicitata come perfezione, come integrità, come completezza. E’ un richiamo a quell’orizzonte assoluto, sempre trascendente quanto necessario. Ma cosa è precisamente questa completezza? Lo spiega l’evangelista Luca che si rivolgeva a un pubblico pagano e ignaro di cosa significasse completezza nella tradizione biblica:
Siate misericordiosi, come è misericordioso il Padre vostro (Lc 6,36).
Nella misericordia, nel cuore grande, nell’amore è il necessario compimento dell’uomo che si rapporta all’assoluto.
Ora, questa tensione all’assoluto attraversa e costituisce l’umano: è l’orizzonte comune che fa comunicare gli uomini. E’ una tensione, ma anche una fatica. L’uomo sale la montagna, e giunto sulla cima non può che saltare per tentare di aggrapparsi al cielo. Senza riuscirci, ma stringendo a vuoto il cielo. Il cielo, l’assoluto rimane presente nell’assenza, trascendente. Ma la liturgia ci testimonia che non finisce tutto in questa tensione verso l’assoluto; in quanto azione di Dio, la liturgia mostra qualcosa di più rispetto a questo movimento. Testimonia che l’assoluto non rimane una trascendenza muta, atematica. Ci dice di Dio che va verso l’uomo.
Mi pare che si possa riscontrare questa dinamica nell’episodio del giovane ricco riportato da Marco (10,17-22). Il giovane ricco si era avvicinato a Gesù per chiedere cosa dovesse fare per avere la vita eterna, ovvero la pienezza, la completezza. Allora “Gesù, fissatolo, lo amò e gli disse: va’, vendi quello che hai e dallo ai poveri e avrai un tesoro in cielo, poi vieni e seguimi. ma quello rattristatosi per quelle parole se ne andò afflitto, poiché aveva molti beni”. Quel giovane chiedeva regole, l’undicesimo comandamento, la parola segreta, per elevarsi nello zelo, in un ennesimo sforzo di volontà. Mentre non si accorse che la vita eterna era già lì, gli era già andata incontro. Dio lo aveva già guardato e amato. Personalmente. Ma lui non si lasciò chiamare per nome, rimase solo e per sempre “il giovane ricco”.
Adesso posso tornare indietro sull’immagine della montagna: l’uomo sale la montagna, e giunto sulla cima non può che saltare per tentare di aggrapparsi al cielo. Senza riuscirci, stringendo a vuoto il cielo. A meno che non sia il cielo ad abbassarsi, come è avvenuto tramite la croce, quella determinata croce del Golgota.
Giotto lo ha descritto nella Cappella degli Scrovegni, nella grande parete del Giudizio Universale. Bisogna guardare un particolare ai piedi della croce già sollevata dagli angeli. Lì si vede quel piccolo uomo che, all’ultimo momento, si aggrappa alla S. Croce per elevarsi e partecipare del cielo, della completezza, della misericordia, del tesoro in cielo.
Un post meraviglioso! Temo di non aver nulla da aggiungere. Se non limitarmi a sottolineare il fatto che si parla soprattutto di azioni fisiche ad esprimere concetti di Grazia e Pienezza. Le Parole sono di Dio; gli uomini devono fare, toccare, stringere, camminare. L’uomo di Giotto che si aggrappa alla Croce è in effetti la più sublime di tutte.
Grazie. L’intento è quello di approfondire sempre di più quale possa essere l’orizzonte comune di ogni uomo, guadagnato attraverso gli strumenti della filosofia, e allo stesso tempo la specificità di Dio che, in modo indeducibile, convoca nella liturgia. Un modo per esplicitare, un po’ di più, quanto nei post precedenti poteva prestare il fianco a fraintendimenti e che Paolo aveva subito sottolineato.