1. Ritiene che le indicazioni conciliari siano sufficienti per la progettazione di luoghi di culto per l’assemblea?
2. Che cosa dicono di nuovo le indicazioni conciliari rispetto al passato? Quali problemi risolvono e quali lasciano insoluti?
3. Lei vorrebbe progettare e costruire una chiesa? e perché?
4. Disponendosi oggi alla progettazione di un luogo di culto, da quali istanze partirebbe per la progettazione?
5. L’uso del marmo può essere ancora valido per la costruzione, in particolare, di un luogo di culto?
6. Se sì, per quali elementi costruttivi o di arredo liturgico? Con quale tipo particolare di lavorazione?

Le sottolineature sono mie.

Arch. Giovanni Michelucci – Firenze

1 – Direi di si, perché le indicazioni date -dal Vaticano II sono molto chiare ed indicative per la costituzione dell’assemblea liturgica. Questo è sufficiente anche per l’architetto. Una volta stabilita chiaramente la funzione del culto e la sua espressione in comunità liturgica, spetta all’architetto darle lo spazio adeguato.
2 – Mi pare che due soprattutto sono le indicazioni conciliari che in un certo senso possono dirsi nuove rispetto al passato e tali perciò da originare una nuova architettura degli edifici sacri: a) l’altare maggiore che deve essere collocato in modo da apparire «segno» del Cristo; b) la partecipazione attiva dei fedeli. Questi due elementi mi sembra possano costituire le coordinate dell’architettura sacra, perché il primo rappresenta l’oggetto a cui tende l’attività umana religiosa da cui è qualificato e di cui si alimenta l’edificio sacro; il secondo precisa il senso di quella attività. L’architetto ha cosi indicato lo stato attuale della dimensione religiosa e per questo stato è chiamato a creare lo spazio.
Non potrei rispondere alla domanda: «quali problemi risolvono e quali lasciano insoluti» le indicazioni conciliari, perché se si allude ai problemi architettonici, non era compito del Concilio affrontarli; se ci si riferisce ai problemi religiosi, che rimarrebbero ancora bisognosi di ulteriori determinazioni, non compete a me il dirlo. Comunque anche qui direi che il Concilio non ha inteso risolvere tutti i problemi religiosi, ma ha affrontato quelli che la vita della Chiesa ha presentato, ed altri che la vita stessa della Chiesa porrà e risolverà. All’architetto compete « capire» questi problemi e dare soluzioni architettoniche in sincronia con le soluzioni teologiche.
3 – L’architetto è interessato a qualunque costruzione.
4 – Da quelle indicate dal Concilio e che ho esposto all’inizio della risposta alla seconda domanda.
5 e 6 – Nulla vieta a che sia adoperato il marmo: si tratta di vedere se la particolare architettura lo richiede e se i mezzi lo consentono.

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Arch. Leonardo Mosso – Torino

1 – Le indicazioni conciliari, risultanti più dall’insieme che dai particolari delle norme, sono sufficienti se si prendono appunto nella loro totalità, come spirito che deve informare il luogo di culto per l’assemblea e soprattutto come messa. in risalto della centralità dell’Eucarestia, della celebrazione della parola di Dio e della partecipazione attiva, la « actuaritas» dei fedeli.
In questo senso, la norma non va intesa come un limite, ma come l’avvio di un discorso, come lo spunto di una evoluzione che ha come scopo anche l’inserimento del laicato nella vita viva della chiesa.
Questo significa anche una sorta di estensione di responsabilità dalla gerarchia alla chiesa nella sua interezza come popolo di Dio, per quanto riguarda alcuni aspetti della vita e della funzionalità dèll’assemblea stessa.
A questo proposito, si inserisce il problema della trasformazione evolutiva del luogo di culto, come concetto e quindi anche come organismo architettonico: non più inteso come legato ad una certa ipotetica e statica situazione urbanistico-sociale e religiosa, ma come centro focale di piccole e grandi comunità ecclesiali, spontaneamente formatesi ed esse stesse in continua trasformazione evolutiva, il cui unico significato funzionale sta nella natura libera di questo legame di comuunità.

Come conseguenza diretta del cristocentrismo del concilio vaticano secondo, da cui viene il senso nuovo ed antico di una opportuna «desacralizzazione-pansacralizzazione » e quindi di una quotidianità dell’ambiente per l’assemblea che suona contrapposizione al concetto di tempio che, fino a ieri doveva «impressionare », penso si debba riconoscere in queste comunità ecclesiali, o gruppi a religiosità spontanea di « parrocchia» e di quartiere, ma anche, per esempio, di scuola e di fabbrica, di isolato e di cascina, di cooperativa e di campeggio, un punto nodale della vita religiosa contemporanea e di riflesso della cosiddetta architettura sacra.

Premesso ancora che non credo abbia senso parlare di arte «sacra»: il problema della progettazione di un luogo di culto, anzi, il problema della progettazione tout court, non può più essere posto come un fatto individuale dell’architetto né come un fatto simbolistico-informativo isolato dal contesto territoriale e sociale: «una chiesa come una chiesa, una scuola come una scuola» ecc., legato cioè unicamente all’edificio ed al suo effimero programma edilizio, ma come un intervento sulla struttura della cultura del territorio e, precisamente, nel senso di una progettazione dove l’opera del progettista tenda a configurare dei sistemi impersonali e genetici della massima libertà individuale da parte dei fruitori. Dei sistemi quindi che forniscano alle comunità di ogni tipo, familiare e sociale, gli strumenti per formare esse stesse i propri luoghi di lavoro e di vita: nel nostro caso alla comunità ecclesiale gli strumenti per formare essa stessa il proprio luogo di culto.

2 – Rispetto al passato, le indicazioni conciliari non dicono molto di nuovo sul piano tecnico e, fortunatamente, non risolvono alcun problema specifico: ma esse aprono, per esempio, la strada al ritorno ad una realtà dello spazio ecclesiale che era stato snaturato già dal medioevo, con il presbiterio separatore fra il celebrante ed i fedeli, nonché, ad una realtà plastico-figurativa che, superando la sua originaria funzione di biblia pauperum, introduce il linguaggio delle più avanzate correnti di ricerca contemporanee.

In senso storico tutto ciò è da me inteso, e posto in atto nel mio operare, come rifiuto sia del figurativismo che del gestualismo, che di ogni espressionismo anche astrattistico, a favore di una viva e diretta rispondenza con il pensiero e con gli strumenti «estetici» attuali di tecnica- formazione-informazione.

Nelle indicazioni conciliari relative al campo architettonico e plastico-figurativo, non a caso parallele alla caduta della lingua «sacra », io voglio leggere il rispettto della chiesa per la cultura contemporanea anche sul piano estetico-formativo nel significato non solo di accettazione e di comprensione, ma anche di partecipazione attiva alla spiritualità del nostro tempo nelle sue più diverse manifestazioni e nel suo significato profondamente esistenziale.

3 – Certamente, perché, come ho accennato poc’anzi, ogni problema di architettura è per me un problema fondamentale di ricerca.

4 – In gran parte da quelle appunto espresse nelle risposte alla prima ed alla seconda domanda.

5 – Senza dubbio, al pari di qualsiasi altro materiale da costruzione.

6 – Per tutte quelle maniere d’uso che trovino la loro verità esistenziale in un fatto di cultura e di civiltà contemporanea.

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Ing. Arch. Pier Luigi Nervi – Roma

Il problema «chiesa» era ed è rimasto per me uno dei più difficili dell’architettura e non vedo come possa essere condizionato o reso meno arduo dall’impiego più o meno esteso di uno qualsiasi dei tanti materiali strutturali o decorativi di cui disponiamo.

Senza dubbio i marmi sono e resteranno sempre in prima linea per nobiltà e bellezza, ma non mi sento di definirne in modo generale, né i tipi, né le lavorazioni.


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