A Gerusalemme si va per quanto mostra un’assenza, come “quella gran buca nella terra, quella che fece la Croce quando fu innalzata. Tutto vi converge. Là è il punto che non può essere spostato, il nodo che non può essere sciolto” (P. Claudel, L’annuncio a Maria). A Gerusalemme si va per un sepolcro vuoto.
La pietra dura e svuotata mette davanti un’identità (una permanenza) e una differenza. Perché quel bordo immobile è stato scavalcato dall’inatteso, ma bisogna esercitarsi per riconoscere ciò che non può essere. Come davanti al Risorto: la Maddalena non lo riconosce, e poi lo riconosce quando risuona il proprio nome, Maria (e non quello di chi la chiama – Gv 20,16); anche i due di Emmaus non lo riconoscono, e poi lo riconoscono quando le parole si schiudono nel gesto del pane spezzato (Lc 24,31).
Cosa c’è di più estraneo del figlio che ti assomiglia. O del lavoro che ti esce dalle mani. E rispetto al silenzio cosa c’è di più prossimo della parola. Cosa c’è di più prossimo alla cura che non sia la ferita.
Non c’è che esercitarsi con quanto abbiamo davanti per riconoscere la carne che si trasfigura.