C’è un indugiare della lingua e della cultura ebraiche sulla parola (dabar) intesa come potenza, campo di forze, energia, evento, un qualcosa che accade, e che accadendo si consegna a colui che ascolta. Il nome divino, il tetragramma, bisbigliato solo in precise circostanze, fino a diventare impronunciabile dopo la caduta del tempio, ne sarebbe un diretto riflesso.
Succede, inoltre, che il dabar venga contrapposto al logos, ravvisando in quest’ultimo un insieme di nozioni astratte, solo pensate. Probabilmente, questa contrapposizione è solo un’enfasi propria della mentalità deellenizzatrice. In realtà, ogni lingua percepisce e sa che le parole sono pietre e non solo flatus vocis di concetti astratti. Se dico, in italiano, “scusa” non denuncio solo la mia erroneità ma inizio a ristabilire (atto perlocutorio) la dignità che ho perso avendo offeso il prossimo.
Ogni parola è manodopera nel momento in cui rimane fedele a ciò che comporta. E se è parola di Dio sarà massimamente fedele. Non per nulla S. Tommaso scrive: «dicere dei est facere» (1Cor 1, lect.2, n.1) così come Isaia assicura che «la parola uscita dalla mia bocca non ritornerà a me senza effetto, senza aver operato ciò che desidero e senza aver compiuto ciò per cui l’ho mandata» (Is 55,11).
Il logos nel suo rigore altro non è che il dabar nella sua fedeltà. Lo vediamo, credo, nel prologo del Vangelo di Giovanni, dove è il logos che si consegna alla storia e alla carne, fino in fondo, fino a farsi storia, fino a farsi carne (Gv 1,14).
Nel verbo, nel logos, nel dabar, scorgiamo la radice del mistero che porta all’incarnazione.
Se parlare significa mettersi nelle mani di chi ascolta, allora ascoltare significa accogliere. «Se uno mi ama, osserverà la mia parola, e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui» (Gv 14, 23). L’annuncio cristiano non sta solo nel vivere il messaggio di Cristo, ma nel vivere Cristo, nel vivere della compagnia della persona di Cristo.
Parlare, comunicare, consegnarsi: questo il modo in cui Dio si rivela. All’inizio, ad Abramo, e gli parla come il Dio fedele alla sua tenda. Poi a Mosé, come il Dio più forte. Poi ai profeti, come il Dio della riconciliazione e della speranza. Poi ai sapienti, come il Dio vero. Poi agli uomini e alle donne, come il Dio d’amore e quindi di tutti. Una storia di tenacia e tenerezza, dove Dio rimane fedele fino in fondo alla parola data, fino a consegnare il proprio nome alla storia e alla carne. E al centro di questa storia abbiamo sempre Gerusalemme.
In questo dipinto di Memling (1470) vediamo la città di Gerusalemme come in uno spaccato. In questo scenario, si compiono le singole tappe di passione, morte e risurrezione di Gesù.
Vediamo, soprattutto, che gli uomini non sanno cosa farsene di questo Dio che si consegna: Giuda, nel tradimento, consegna Gesù alle guardie, le guardie lo consegnano al Sinedrio, il Sinedrio lo consegna a Pilato, Pilato lo consegna a Erode, Erode lo consegna nuovamente a Pilato, e infine Pilato dopo aver fatto flagellare Gesù lo consegnò perché fosse crocifisso (Mc 15,15). E la croce spalancò le braccia.