Un breve passo indietro, a quando si parlava di Guénon. Certamente il singolo autore è meno ampio e multiforme della casa editrice, anche se, in qualche modo, ne raccoglie e manifesta la cifra distintiva. Perché se Roberto Calasso ha detto “io sono guénoniano”, lo ha potuto dire solo perché René Guénon usava dire: “René Guénon non esiste”.
Non c’è come credere di esistere, e volentieri accade ai mortali, per cadere nel dileggio adelphino. E’ il caso del principe vescovo Von Greiffenklau che volle inscenare la propria vanagloria facendo realizzare a Tiepolo quella meraviglia falsa e inabitabile che appare sui soffitti della Residenz di Würzburg, diventando così, almeno secondo Giorgio Manganelli, «l’uomo che la volle far esistere e credeva di esistere egli stesso».
Ci sono in Il rosa Tiepolo alcune frasi tra parentesi particolarmente didascaliche, come questa che sentenzia: «Il reale non è che la prima fra tutte le credenze». Tiepolo, quindi, segue la via regale del pensiero quando dipinge il mondo come se fosse un teatro. Tutto si svolge tra cielo e palcoscenico. Per questo le nuvole, e i cieli gelidi, e i suoi caravanserragli di dèi, prostitute, giullari, orientali, santi e principi, altro non sono che occasione per l’epifania di stoffe. Stoffe che sono sipari abbassati. Sipari che annunciano una scena, e dove la scena è il sipario stesso. Stoffe, solo stoffe, come cielo e terra altro non sono che velo di māyā: «chiunque frequenti a lungo la sua pittura non riesce a sbarazzarsi del sospetto che Tiepolo non usasse i suoi trionfi in funzione dei singoli personaggi rappresentati, ma usasse quei personaggi in funzione del trionfo stesso. Il quale, a sua volta, potrebbe anche non essere altro che un nome occidentale e ostentatorio di quella che, in un diverso continente, fu chiamata māyā: non solo “illusione” e “apparenza”, ma anche “magia misuratrice”, tessuto di cui è fatto il mondo, secondo il significato che la parola ha nei testi vedici, prima che nella versione vedantica» (Roberto Calasso, Il rosa Tiepolo, pag. 38).
«La scepsi e la mistica: Tiepolo accoglieva tutto, ma riducendo ogni volta la dipendenza delle figure dalla gravità. Il passo diventava appena un po’ più leggero, più fluido. Però nulla veniva dimenticato, dai nani e dai Pulcinella fino agli angeli e ai draghi. Nato nella città dove le donne usavano la maschera e perciò si permettevano “di fare assolutamente quello che vogliono” (disse un viaggiatore), la sua disponibilità metamorfica non apparve innaturale» (pag. 95).
Ars combinatoria, scomporre e ricomporre mondi attingendo ogni figurante, ogni gesto e ogni scorcio da un magazzino teatrale: che poi è sempre la stessa, identica e antica pretesa teoretica, quella degli infiniti mondi attuali*. Pretesa che, se assoluta, potrebbe solo implodere, lasciando gravitare a terra il peso dei cieli di Tiepolo. Se assoluta, pesteremmo calcinacci azzurri e rosa.
* La totalità dell’essere si autoconterrebbe come totalità chiusa che si autopone, ma questa presupposta coincidenza degli opposti genererebbe una insuperabile contraddittorietà nella totalità dell’essere.
La pittura di Tiepolo, quella marchiata adelphi, ripropone, non appena la si traduca teoreticamente, l’antica pretesa degli infiniti mondi possibili, ovvero di una totalità infinita in atto, perfettamente determinata di tutti gli enti e delle loro relazioni. Pretesa che ritroviamo nell’armonia prestabilita e in tanta logica moderna fino a Hilbert, nel dio tappabuchi e nel dio garante delle idee innate, nell’uno dei neoplatonici, nel serpente che si mangia la coda di Nietzsche, nella nozione di “fato” che contiene già tutte le infinite relazioni causali, nell’identita degli opposti del Tutto immanente orientale.
Questa pretesa non regge: un’infinità attuale di relazioni non può essere posta come totalità autoconsistente perché il principio di consistenza non può che stare fuori da questa infinità, e quindi non può vantare di essere l’assoluto.
S. Tommaso scrive che “I filosofi che posero che l’infinito sia in atto, ignorarono cosa la propria voce sta dicendo”. Il che, ovviamente, non toglie che non funzioni per creare un mito, affrescare un soffitto, scrivere un libro e, come si diceva, fondare una casa editrice.
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