Perché questa serie di post dedicati a Adelphi?
Perché è una casa editrice che ha una forma. «E qui la parola forma va intesa in molti e disparati modi. In primo luogo la forma è decisiva nella scelta e nella sequenza dei titoli da pubblicare. Ma la forma riguarda anche i testi che accompagnano i libri, nonché il modo in cui il libro si presenta in quanto oggetto. Perciò include la copertina, la grafica, l’impaginazione, i caratteri, la carta… tutti i libri pubblicati da un certo editore potevano essere visti come anelli di un’unica catena, o segmenti di un serpente di libri, o frammenti di un singolo libro formato da tutti i libri pubblicati da quell’editore. Questo, ovviamente, è il traguardo più audace e ambizioso per un editore, e tale è rimasto da cinquecento anni», ovvero a partire da Aldo Manuzio (Roberto Calasso, L’editoria come genere letterario, Adelphiana, 2001).
Questa forma indica un progettualità. Adelphi la persegue con rigore. Per questo è rivelativa di una visione e di una missione. Parte dal tutto, per questo non accumula. Il catalogo viene prima del titolo. Stampa libri anche per un solo aggettivo contenuto, ma quell’aggettivo deve essere necessario per quanto rivela del legame con gli altri libri.
E cosa dice questo legame? Che al principio c’è la morte, e non la vita. Che bisogna partire dal passo felpato di un felino vicino alla preda. Che il divorare è più forte dell’amare. Che il creare è distruggere. Che ogni cammino termina dove è iniziato, ma per ritrovarsi a testa in giù, come presi in giro.
E cosa c’entra tutto questo con questo blog? C’entra perché anche questo blog va inteso come genere letterario, ha la sua coerenza e le sue astrusità. C’entra perché, inseguendo i segni visibili della fede, spesso si imbatte in opere che pongono l’interrogativo di quale Dio, di quale invisibile e, soprattutto, di quale vita (che si è fatta) visibile siano testimonianza. E Adelphi, con il suo numinoso catalogo, spesso e volentieri, ce lo fa capire.
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