Dicevamo, allora, che lo scenario ordinario dell’Adelphi presenta questa trama: l’impiegato del catasto, dopo aver diligentemente archiviato, numerato, misurato tutte le proprie mappe cartesiane, esce dall’ufficio e compie da qualche parte una irragionevole, solitamente perversa, meglio se efferata, singolarità.
Il giudizioso plus valore offerto dalla casa editrice sta nel fatto che il risvolto di copertina come minimo andrà a spiegarti che l’impiegato del catasto è impiegato, ovvero un utilizzato o utilizzabile, come direbbe il traduttore Pietro Chiodi, ovvero una cosificazione della modernità calcolante. Naturale, quindi, che a un certo momento l’utilizzato del catasto sbarelli. Gli dèi a volte ritornano.
In Guénon troviamo esplicitate e tematizzate le due componenti di questo scenario. “L’età moderna conosce due errori che solo in apparenza si oppongono, ma sono in realtà correlativi e complementari: razionalismo e sentimentalismo… Tutte le teorie contemporanee, non soddisfatte di ciò che può dare la ragione cercano qualcos’altro ma lo cercano dalla parte del sentimento e dell’istinto, vale a dire sotto della ragione e non al di sopra” (Simboli della scienza sacra, pag. 15). Guénon arriva, con nonchalance, a rimpiangere i tempi in cui gli studenti studiavano la Summa di Tommaso. E poi aggiunge: “bisogna restaurare la vera intellettualità, e con essa il senso della dottrina e della tradizione; sarebbe ora di mostrare che la religione è ben altro che una faccenda di devozione sentimentale, o di precetti morali, o di consolazioni ad uso di animi indeboliti dalla sofferenza, e che in essa si può trovare il solido nutrimento di cui parla san Paolo (sic) nell’Epistola agli Ebrei“. Vien quasi voglia di dargli ragione.
In realtà, guardare a Guénon per trovare valorizzato quello che l’opera di San Tommaso rappresenta sarebbe ingenuo come citare Cristina Campo o Elémire Zolla per affermare il valore dell’antica liturgia. Perché qui si entra nel campo della mistificazione.
E qui entriamo in uno scenario adelphico più profondo.
Prendiamo ancora Guénon, che in questo è gran maestro. La sua concezione del tempo è ciclica: manifestazioni seguono necessariamente a dissoluzioni. Il modello è quello della dottrina indù. Il principio originario è il Brahma, che comprende essere e non essere, e per questo è (anche se qui utilizzare il verbo essere sarebbe improprio) la somma infinita di tutte le possibilità. La tradizione è un risalire questo sapere originario, primigenio, antecedente a ogni sapienza e di cui ogni religione è un adattamento parziale.
Questi cicli temporali si caratterizzano per una caduta, un processo di dissolvimento e di oscuramento che investe la verità. Ne Il regno della quantità se la prende, per duecento pagine, con il mondo moderno denunciando il suo sviluppo in un senso solo materiale accompagnato da un regresso intellettuale. Guénon è molto duro: l’età moderna segnerebbe l’età finale, il giungere ai vermi della frutta. Due possono essere gli atteggiamenti conseguenti. Quello del dio Vishnu e quindi del sapere legato ai simboli e alla tradizione che riaccendono le vie del sacro rallentando la fine del ciclo; o quello di Shiva, della distruzione, della dissoluzione, dell’accellerazione della fine. In ogni caso, il ciclo si esaurirà e riprenderà il suo ciclo per esaurirsi nuovamente.
Ora se a volte pare, come la sviolinata a favore di San Tommaso, che Guénon veda in questo sapere una via privilegiata, in realtà, come indicato nel capitolo finale de Il regno della quantità, ogni punto di vista si equivale, perché scompare in quanto illusorio. Shiva e Vishnu, alla fine, non si oppongono “perché resta soltanto ciò che è e che non può non essere… si può affermare in tutto rigore che la fine di un mondo non è altro che la fine di un’illusione” (pag 270).
Quel che resta è un infinito attuale che rivela come fondamento un’illusione che non si apre su nessun fondamento ma su una nuova ciclica illusione. Ogni opposizione, ogni determinazione, ogni via è illusoria.
Ora, lasciamo perdere se un siffatto infinito attuale, questo destino che contiene tutte le relazioni possibili, questa identità degli opposti risulti contraddittoria. Lasciamo perdere se si possa dare questa totalità così orientale e così contraddittoria. E lasciamo pure perdere il principio di non contraddizione (che subito sarebbe tacciato di essere così meschino, così occidentale).
Possiamo solo dire che. probabilmente, un universo fondato in questo modo non tirerebbe neanche ora di merenda. Semplicemente non camperebbe. Ma una casa editrice sì.
Guardo, a caso, la mia libreria, sezione Adelphi. Ogni libro apre una via nuova, e in ogni libro si aprono infiniti mondi, infiniti destini paralleli (Meditazioni sullo scorpione); ogni codice è preciso quanto inutile, esuberante e pronto ad essere inghiottito (L’altra parte di Kubin, Biblioteca di Fozio); l’accumulazione di segni diventa l’assurdo ovvero il riso patafisico ovvero la lingua universale (Faustroll di Jarry); ogni falcata è un passo iniziatico dove il diritto si rivela rovescio (Kim di Kipling); ogni falcata è una mossa, nello scambio continuo fra pellegrino e Dio, in un gioco nell’assoluto fra due parti infinitamente sbilanciate (autobiografia di S.Ignazio di Loyola); metamorfosi che mostrano che la mistificazione è uno dei misteri più profondi (L’eremita di pechino di Trevor-Roper).
La superficie si fa profonda mistificando, ma non per nascondere. Perché nulla è nascosto, se tutto è gioco ciclico e rimando continuo. Tutto è già mistificazione sopra mistificazione.
E’ il rigore, quello adelphico, di un procedimento che risale alle cause, quasi una parodia della via tomista. Se il dato sotto il naso è la molteplicità vista come lo scherzo, il bizzarro, il kitsch, l’abisso e il doppio, il sussurro, la menzogna, l’errore, l’impunito, l’illusione cosa può essere causa prima e causa adeguata di un tale mondo? Il cosmico divorare di ogni illusione. Uccisore e menzognero, fin dal principio (Gv 8,44).
.