René Girard ha capito una sola e grande cosa: gli uomini non si accordano se non a spese di una vittima. Ha svelato l’astuzia sacrificale, ha spiegato come evacua la fisiologia sociale, ma non spiega la fisiologia cosmica: ecco il limite che Calasso vede in Girard. Alla fine, la pretesa girardiana sarebbe di scorgere nel sociale la realtà ultima, ovvero di spiegare la società concependola come autonoma e rapportandola solo a se stessa. Girard, scrive Calasso, “presuppone che all’origine non vi sia morte, ma un assassinio – e precisamente un linciaggio. Ma prima del linciaggio, c’è la fame: “la fame è la morte”. In essa si congiungono morte e assassinio. L’impossibilità di sopravvivere se non si mangia, quindi se non si uccide, perché anche la recisione di una pianta significa uccisione”.
Per Calasso, la necessità feroce, il rta indissolubile, è che chi sceglie la vita sceglie l’uccisione, ovvero la morte. E chi accede al banchetto accetta di essere, un giorno, divorato. L’origine non è il corpo sociale ma la gola del t’ao t’ieh, la belva che tutto s’ingoia. Ecco la fisiologia cosmica a cui tende Calasso: “Con la sua ipotesi, Girard spiega la ciclicità del tempo, non la sua irreversibilità; può spiegare l’assassinio, non la morte; può spiegare il conflitto dei desideri mimetici, non l’esistenza del desiderio”.
Fin qui Calasso, in particolare tra pagina 204 e pagina 210 de’ La Rovina di Kasch: è qui che il nostro editore disegna un cerchio attorno a Girard, un bel recinto dove cerca di rinchiuderlo in fretta, per ingrassarlo e poi servirlo su vassoi cesellati (pag. 207) al palato dei suoi lettori.
A me pare, invece, che Girard non si limiti a identificare il religioso con il sociale. Credo che, col tempo, molti elementi della sua ricerca eccedano dalla mera sociologia e, anche se non esplicitamente tematizzati, implichino un ordine di tutte le cose (la vita, la morte, il tempo, la fame) ben diverso da quello esposto da Calasso.
Andiamo con ordine (il ragionamento che seguirà è essenzialmente tratto da R. Girard, Vedo Satana cadere come la folgore, Adelphi, pagg. 25-38).
Girard vede nel desiderio mimetico la fonte principale della violenza. Il modello dei nostri desideri è fornito da chi sta attorno a noi. Il conflitto nasce nella misura in cui il mio desiderio viene mosso verso l’oggetto valorizzato dallo sguardo del mio vicino, del mio prossimo. Se il vicino non si lascia strappare l’oggetto, nasce la contesa; ed è proprio questa rivalità che fa crescere il desiderio. E con il desiderio la violenza. Non desiderare la roba d’altri del decimo comandamento mira proprio a limitare il desiderio che la rivalità mimetica innesca. Se risaliamo il decalogo vediamo che proibisce azioni che conducono a un processo ascendente dove l’oggetto del contendere diventa sempre più pericoloso per l’equilibrio della comunità: le cose, la famiglia, la verità, la vita, Dio. Il decalogo ha solo un’azione limitativa. Pone un freno, ma non risolve il problema posto dal desiderio mimetico. Una via, invece, capace di fornire anche un modello propositivo, e non soltanto calmierante, lo troviamo nel Levitico: amerai il prossimo tuo come te stesso, né più né meno. Modello che verrà assunto e ulteriormente fondato da Gesù nel Nuovo Testamento.
Non solo. Girard fa notare che Gesù non parla in termini di divieti, tipico invece dell’Antico Testamento, ma costantemente in termini di imitazione e modelli. Egli ci raccomanda di imitare lui stesso, ma non per narcisismo, bensì per distoglierci dalle rivalità mimetiche. Anche perché Gesù ci invita a imitare il suo desiderio di assomigliare il più possibile al Padre. Gesù non pretende di possedere un desiderio esclusivamente suo, ma ci invita a imitare la sua stessa imitazione. Perché considera il Padre e se stesso come i migliori modelli per tutti gli uomini? Perché né il Padre, né il Figlio desiderano in modo egoistico, avido. Dio “fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni”. Egli dà senza calcolare, senza stabilire fra loro la minima differenza. Se noi imitiamo questo disinteresse divino, non cadremo mai nella trappola delle rivalità mimetiche. Per questo Gesù dice anche: “Chiedete e vi sarà dato…”. Il modo migliore, infatti, per prevenire la violenza non è proibire gli oggetti o il desiderio rivalitario come fa il decimo comandamento, bensì fornire agli uomini il modello che anziché trascinarli nelle rivalità mimetiche, li protegga da esse.
Fin qui Girard. Ma queste pagine fanno già intravvedere un cosmo diverso da quello di Calasso à la t’ao t’ieh.
Facciamo quindi alcune considerazioni partendo da quanto scritto sopra dai nostri due autori adelphici.
Se guardiamo al conflitto, vediamo che si alimenta di una concezione della realtà chiusa in se stessa. Desiderio mimetico + contesto determinato da risorse limitate = tutti contro tutti. Ora, questo risultato è necessario date le premesse, ma non è detto che le premesse siano necessarie.
L’universo chiuso è tipico dei sistemi gnostici e panteistici, dei culti come quello della Madre Terra, di Shakti, Iside, Cibele, Gaia. In modo oscuro, dal sottosuolo, queste dee elargiscono il dono della natura. Il dono è ciclico. L’ordine va quindi mantenuto in modo statico. Le divinità sono garanti di una formula ripetitiva. Sia mai che la luna nuova o il solstizio segnino la rottura e le linee del cielo proseguano fuori dai loro giunti. L’uomo rimane estraneo all’ordine dato, e queste divinità può solo ingraziarsele, più o meno furbescamente, con il fumo delle carni sacrificate. L’infinito è sempre lì che ti digrigna i denti feroci come un t’ao t’ieh. Immagine arcaica, anche se, a ben guardare, è la visione che troviamo oggi in molti movimenti ecologisti e malthusiani. E’ il modo di pensare dei fisiocratici, della loro discendenza liberista e di chi pensa che coi derivati si crei ricchezza. Chiederanno sempre sacrifici umani.
Invece, il Dio che Gesù chiama ad imitare ha nausea di quei fumi: io non gradisco i vostri doni, e le vittime grasse come pacificazione io non le guardo (Am 5,22). Ciò che infatti chiede non è il mantenimento di un ordine, ma il suo cambiamento. Il sacrificio richiesto non è la furbesca restituzione del fumo bruciacchiato sull’altare, e neppure l’agile gesto del sacerdote che con la lama di ossidiana strappa il cuore alla vittima. Ma esattamente l’opposto: è un Dio che promette: toglierò dai vostri petti il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne (Ez 36, 26). L’uomo che cambia: questo è il sacrificio che non nausea. E che cambia seguendo le orme di Dio, un Dio che si fa vicino e offre tenacemente ad ogni uomo e ogni donna la sua amicizia. Io ti ho posto davanti la vita e la morte, la benedizione e la maledizione; scegli dunque la vita, perché viva tu e la tua discendenza, amando il Signore tuo Dio, obbedendo alla sua voce e tenendoti unito a lui, poiché è lui la tua vita e la tua longevità (Dt 30,19).
Qui il sistema non è chiuso, non è entropico come la gola del t’ao t’ieh, la caldaia di Newton e l’algoritmo di un usuraio. L’uomo qui non vive sperando solo che il sole duri un giorno ancora, non assiste impotente al ciclo lunare, non si limita ad amministrare il profitto prefissato dalla madre terra. Se Dio è quello della Genesi, se Dio è creatore, l’uomo è chiamato a partecipare della creazione. Una creazione continua, eterna come Dio è eterno. E creare non è dominare, ma essere signore, ovvero servire secondo l’unico principio che sia veramente sovrano e creativo: l’agape, il principio capace di infondere vita. Quella vita durevole che dura le generazioni. Le risorse qui non sono limitate, perché ogni limite può essere superato nella misura in cui l’uomo partecipa della capacità creativa di Dio. Dio, infatti, attraverso la sua amiciza, chiama l’uomo alla conversione, affinché diventi principio di conversione, di cambiamento della realtà intera. E la realtà non la cambiano né le scimmie, né gli dèi. Ma l’uomo a immagine e somiglianza di Dio, ovvero l’uomo dotato di capacità creativa, capace di compiere scoperte e rivoluzionare ogni limite assiomatico, e quindi gli universi interi. La conoscenza non è la possessione indotta da ninfette in fregola, ma il grande che si rispecchia nel piccolo. La vita, infatti, viene solo dalla vita. La storia e il cosmo sono vivificati dai logoi spermatikoi. Il cosmo è ricchezza di significato: non è oscuro ma misterioso, non è estraneo ma profondo.
Dio stesso, logos creatore e agape, si è fatto carne. Si è fatto uomo affinché l’uomo potesse diventare Dio (S.Agostino). E si è fatto sacrificio lui stesso, per condurci alla somiglianza con Dio. Così il tempo non è irreversibile ma aperto, e non solo alla fine dei tempi, perché già ora Egli viene. E la morte non ha l’ultima parola, ma è stata sconfitta sulla croce. E la fame e le ferite non verranno ingoiate, dimenticate e perdute perché il Risorto glorioso continua a portare i segni della croce.
Ecco a cosa, implicitamente, fa riferimento Girard quando indica nell’imitazione di Gesù il modello che smonta la violenza mimetica. E sebbene Calasso, fin dall’inizio, abbia tentato di renderlo innocuo recintandolo “nel sociale”, qui c’è un’intuizione che eccede e che spalanca il cosmo intero.
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