Nel documento precedente “Le ragioni dell’arte” sono riportate le affermazioni di due critici: una è di Achille Bonito Oliva che definisce artisti solo coloro che operano un costante scardinamento linguistico al fine di far emergere l’unicità del proprio sé; l’altra è di Filiberto Menna che rivendicava al critico il ruolo di vero creativo, di colui che porta alla luce l’opera d’arte che da sola non è nulla.
I due sono perfettamente complementari. Se il problema dell’artista è l’espressione del proprio io, l’irriducibilità della propria individualità, l’arte che ne deriva risulta equivoca perfino a se stessa. E’ l’estetica dell’accumulazione, dell’accatastamento, e del delirio. Scardina e scardina ti alzi al mattino che non riconosci quanto detto e fatto la sera prima. Ecco allora che arriva il critico, ovvero il normalizzatore: se il testo è scardinato, equivoco, insignificante nel darsi della propria pura presenza, il critico fornisce elementi para-testuali che ne garantiscono la collocazione, la fruibilità, la discorsività, l’interesse, il prezzo. Paratesto sono la didascalia, il cartellino, il catalogo, l’invito alla mostra, lo scenario dove viene resa fruibile l’opera, la stretta di mano e il sorriso del gallerista, la temperatura del vino servito, la fragranza del salatino, l’articolo sulla rivista, il consiglio sottovoce, la quotazione, il certificato d’autenticità. Senza tutto questo l’opera rimane un noumeno inaccessibile.
Questo è il risultato coerente di un’impostazione dove una soggettività emozionata, in ultima analisi moderna, ha preso il sopravvento. Che, pur con sintomi diversi, è quanto rischia di avvenire anche in ambito religioso. Pensiamo alla devozione mariana: che ci siano numerose rappresentazioni della Madonna non crea difficoltà; che qualcuna sia pure bruttina, pazienza; crea invece difficoltà se l’artista inizia a pretendere di rappresentare la Madonna della propria soggettività e dei propri affetti. L’immagine non sarebbe più religiosa, ma equivoca, incapace di creare un legame, destinata solo a evocare un senso indeterminato del sacro, del numinoso, un’emozione insindacabile quanto insondabile.
La fede cristiana, invece, ha sempre educato alla responsabilità di una lingua comune, dove l’estro e l’emozione non vengono annullati ma sono chiamati a intonarsi in un sentire più vasto e dove l’intelligenza assume dalla realtà il proprio metodo.
L’opera d’arte cristiana restituisce alla coscienza del credente un contenuto di fede. Non solo. Nella partecipazione a un contenuto di fede che si è costituivamente esposto e consegnato come evento nella trama dei rapporti umani, l’artista è chiamato ad assumere un preciso orizzonte gnoseologico e epistemologico, è chiamato ad addestrarsi a porre attenzione a quanto c’è di irriducibile non solo nella propria soggettività ma anche nella parola dell’altro e nell’esperienza comune.
A questo possiamo aggiungere che l’opera di Dio non ha avuto bisogno di un catalogo curato da Filiberto Menna per venire alla luce. Così come la Parola rivelata non è il disvelamento di un sapere nascosto da bisbigliare benevolmente agli altri fratelli, ma è vicinanza del Regno, è relazione con Dio. Questa vicinanza, il tempo della pienezza, si attua in una forma precisa attraverso la quale Dio si rivela: è la forma di un volto e di segni che conducono a questo volto. E’ forma che permette di conoscere e di riconoscersi, ed è viva perché vive dello splendore della Pasqua di Gesù; non va, quindi, chiusa nella perpetuazione di uno stilema, di una ripetizione rassicurante, ma assunta come fondamento di intellegibilità e di fecondità dell’agire creativo, dove la novità nasce nella libertà di un dialogo d’amore.
L’opera d’arte cristiana costituisce, o dovrebbe costituire, questo antidoto alla pretesa di una creatività autoreferenziale, assoluta, egotica ed equivoca. E la base è la solita: realismo, sapere che l’uomo, come un giardiniere, crea partecipando a una creazione più grande.