Seconda e conclusiva parte del testo
Le ragioni dell’Arte
di Rodolfo Papa (prima parte qui)
Discorso corretto. Questioni di riunificazione.
Passiamo, dunque, ad un livello superiore di approfondimento della questione artistica. L’introduzione del termine “corretto” porta uno spostamento sulla “correzione” degli elementi che entrano in gioco nel parlare di arte. Si tratta di una sorta di ripulitura dalle incrostazioni e sedimentazioni che impediscono il movimento e che conducono, irrimediabilmente, da una parte verso la paralisi o l’impossibilità di dire lo statuto dell’arte e dall’altra ad una autoreferenzialità dei discorsi che non sciolgono le questioni urgenti, ma le avviluppano in un abbraccio che le imprigiona e le soffoca. La correzione tende ad operare una riequilibratura delle questioni, verso una esattezza dei mezzi e dei fini, riaffermandoli come “corretti”, giusti cioè veri.
Qualche mese fa, all’interno del Convegno interdisciplinare di Filosofia e Comunicazione, presso la Pontificia Università della Santa Croce, dal tema Mimesi, Verità, Fiction. Ripensare l’arte. Sulla scia della Poetica di Aristotele, il professor Ignazio Yarza nella sua relazione dal titolo Sulla mimesi aristotelica, nelle conclusioni lanciò una considerazione generale sullo stato della riflessione contemporanea sull’arte, a mio avviso importante. Egli affermava che c’è troppa teoria sull’arte, una ipertrofia del pensiero, a tutto discapito dell’arte stessa, se non interpreto male. In altre parole, forse si riflette troppo in termini teorici sull’arte, ma di fatto non viene definita l’arte. Anzi si ha la sensazione di una volontaria non definizione dell’arte: che cosa è, in cosa consiste, qual è il suo campo d’azione.
Anche se i testi sull’arte si moltiplicano in continuazione, non troviamo definizioni chiare nelle varie teorie contemporanee d’arte. Si diffonde l’impressione che l’idea di arte sfugga ad una definizione, o meglio la definizione dell’arte sembra dipendere dal continuo spostamento di un confine, a causa dell’introduzione costante di nuovi strumenti tecnici che, di volta in volta, aprono a nuove applicazioni, ma che di fatto non dicono nulla sullo statuto interno dell’arte. Per essere più chiari, vi sono una serie di tentativi di ri-definire l’arte a partire dall’ultima frontiera culturale aperta da una nuova disciplina, che però non ha diretta relazione con l’arte. Tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento assistiamo a costruzioni di teorie che di volta in volta uniscono i risultati di un sapere particolare con l’azione dell’arte: arte e psicologia [27], arte e sociologia [28], arte ed antropologia culturale [29], arte e logica formale [30]. Oppure abbiamo, nell’entusiasmo di nuove scoperte tecnologiche, la riduzione dell’attività artistica nell’incontro-scontro con la fotografia, il cinema, l’informatica o con la realtà virtuale del cyberspazio [31].
Le teorie, che di volta in volta si accumulano, invece di impegnarsi sulla corretta relazione tra l’arte in sé e i nuovi campi del sapere e le invenzioni tecnologiche, producono piuttosto una ridefinizione dell’arte a partire dai nuovi saperi particolari e dalle nuove invenzioni tecnologiche, cosicché queste lentamente erodono parti sostanziali dall’arte, così come la si è pensata e definita per millenni.
Questa ansia di futuro e di progressivo sviluppo non riesce a dire che cosa è l’arte, ma tende piuttosto a diluirla in altri campi e in altre discipline; inoltre tende a produrre una storia dell’arte, che non si pone come obbiettivo la comprensione del senso e del significato dei prodotti artistici del passato, ma che mira solo a verificare la presunta contemporaneità di stili e di soluzioni formali di altre epoche, allo scopo di giustificare il presente alla luce del passato. In questa distorta prospettiva, per esempio, Caravaggio [32] diviene paradossalmente il campione omosessuale che lotta contro il potere della Chiesa e Leonardo [33] diventa il campione dello scienziato rifiutato dalla cultura del proprio tempo, incapace di seguire la sua visionaria intuizione del futuro. Ultimamente stiamo assistendo ad un ulteriore smembramento delle categorie storiche tradizionali, a favore di un rimescolamento dei modelli storici, con il vantaggio di un ripensamento del sistema storiografico da un lato, ma dall’altro di un ulteriore sovvertimento delle categorie artistiche [34].
Di conseguenza la definizione dell’arte viene sospesa, anzi tutte le teorie del passato risultano lette con lenti inadeguate, con l’effetto di una deformazione dell’oggetto d’indagine, che non porta nessun risultato utile per la riflessione sullo statuto dell’arte.
La stessa definizione di “opera d’arte aperta” proposta negli anni sessanta del secolo scorso da Umberto Eco [35], è frutto di questa posizione di non definizione dell’arte e dell’opera d’arte, infatti, pur indagando il ruolo attivo del fruitore, di fatto non chiarisce definitivamente l’arte.
Anche le posizioni assunte dalla critica creano qualche perplessità: per esempio Filiberto Menna [36], che rivendica al critico il ruolo di creativo rispetto ad un opera d’arte, relegando l’artista al ruolo di inconsapevole fattore di qualcosa che se non viene definito dal critico semplicemente “non è” nulla; o la visione critica proposta da Achille Bonito Oliva [37], che divide in due classi gli artisti, affermando che quelli degni di questo nome sono solo coloro che operano un costante scardinamento linguistico a tutto vantaggio dell’espressione del “sé”, mentre quelli che operano con strumenti tradizionali, e che non sono assoggettati al dominio del critico, sono definiti “artieri”, ricacciando di fatto, in questo modo, la produzione artistica tra le arti servili, nella condizione pre-umanistica di arti meccaniche, ignorando così gli sforzi che gli stessi artisti hanno fatto in tutto il Rinascimento italiano per dimostrare che l’arte della pittura (per esempio) è un’arte liberale. Si possono anche citare innumerevoli libri di storia dell’estetica che non prendono in considerazione l’infinita quantità di testi teorici prodotti dal pensiero cristiano, e che quasi nullificano l’esistenza stessa di tale contributo, relegandola ad un marginale fenomeno di costume del passato, che non avrebbe nulla da dire nel panorama di riflessione sull’arte in epoca contemporanea [38]. Oppure, si può citare la sterminata riflessione su quello che viene definito “l’ombra del bello” [39], in cui l’attenzione è tutta spostata sul deforme e sul brutto, come contributi essenziali del pensiero teorico artistico, fino a rivendicare per il brutto [40] e il deforme un ruolo positivo per indagare tutto l’uomo. Rifiutata la forma del bello come espressione apollinea ci si rifugia nel suo contrario, nell’irrazionale dionisiaco del deforme, distruggendo di fatto l’equilibrio tra le due dimensioni che permette una reale possibilità all’arte.
Certamente tutte queste riflessioni recano molti spunti interessanti e a volte anche stimolanti riflessioni sull’essenza stessa dell’arte, ma non riescono in alcun modo a dar conto dell’insieme della questione. Paradossalmente tutte le riflessioni qui ricordate, pur introducendo elementi rilevanti e a volte utili alla definizione dell’arte, tendono poi a non giungere ad una ricomposizione del quadro generale, che rimane di fatto incompleto e mutilato. In sostanza, sottratto dalla riflessione sull’arte il concetto di “bello” [41], si è di fatto smarrito il fine dell’arte, che è passato da una definizione forse generica, ma capace di produrre arte in epoche passate, ad una definizione apparentemente complessa, ma incapace di dire tutta la possibilità dell’arte. Di fatto l’arte passa dalle definizioni classiche e medievali, che mantengono sempre un implicito riferimento basso e alto al mestiere insieme all’operare intellettuale, alla definizione di “belle arti”, dove si sottolina la duplicità del processo ideativo ed esecutivo, in quella sintesi che già nel Cinquecento era stata riconosciuta come procedimento specifico dell’arte o “maniera”, mentre con l’aggettivo “belle” si indica il fine di ritrarre il bello di natura. Poi in seguito, in ambito romantico, si passa alla definizione ideata da Lessing di “arte figurativa” (Bildende Kunst), che separa di fatto le arti del disegno (pittura, scultura, architettura) dalla poesia e dalla musica, fino all’ulteriore definizione novecentesca di “arte visiva” (Visual Art), che prescinde dagli eventuali contenuti della rappresentazione in una evidente influenza delle teorie “puro visibiliste” che si sono fatte largo, già dalla fine dell’Ottocento, in ambito critico.
Ultimamente si è affermata una idea dell’arte come luogo del consumo e dell’economia, che ha coniato il concetto equivoco di “bene culturale”, il quale nel medesimo tempo è un bene da conservare ma anche qualcosa da sfruttare in chiave economica (per esempio turistica): così il patrimonio artistico di una nazione deve essere tutelato, restaurato e conservato. Viene però introdotto un elemento nuovo nel panorama della concezione artistica: il diritto d’immagine e del suo sfruttamento commerciale ed economico. Di fatto viene così obliato l’importante e tradizionale concetto di “godimento gratuito” del fruitore, con tutte le conseguenze che l’applicazione di questo “nuovo” concetto dell’opera d’arte porta con sé.
Discorso colto.
Il discorso colto con tutta evidenza reintroduce, al di là delle distinzioni formali operate nella definizione dell’arte, la prospettiva umanistica dell’attività artistica, valorizzandola come attività eminentemente “culturale”.
Che cosa è l’arte, sempre, sotto e dentro i cambiamenti storici? E cosa può e deve essere l’arte oggi per l’uomo? E quale può essere un nuovo umanesimo dell’arte? Per definire meglio, cominciamo dal fine. A che serve l’arte, perché l’arte?
L’arte ha –come abbiamo premesso- una funzione eminentemente “culturale”, serve cioè alla cultivatio animi.
La parola “cultura” trae origine dal verbo latino “colo” che significa coltivare (stessa radice κολ del greco βουκολέω: pascolo). La coltivazione è un’attività che aiuta a crescere, secondo le regole dello stesso soggetto: così procede ogni tipo di coltura, quella agricola, quella dei batteri, quella degli animali.
San Tommaso distingue due tipologie di coltivazione, in ordine al soggetto che ne risulta migliorato: «in due modi possiamo coltivare qualcosa: o per migliorarla, e in questo modo coltiviamo un campo o cose del genere; oppure per migliorare noi stessi attraverso di essa: in questo modo, per esempio, l’uomo coltiva la sapienza» [42] –Così in modo significativo continua: «Dio dunque ci coltiva perché dalla sua opera noi risultiamo migliorati […] Noi invece, coltiviamo Dio per migliorare noi stessi attraverso di lui: certo non arando, ma adorando»–).
Cultura è allora paideia nel senso classico del termine: la coltivazione del giovane perché ne fiorisca e maturi l’uomo. Così ne rivendicava il significato, per esempio, Werner Jaeger, nel suo noto libro intitolato appunto Paideia [43].
La cultura ha un aspetto intrinsecamente pedagogico, particolarmente esaltato nell’arte. L’arte serve per far crescere, per far fruttificare quanto già è in animo. Questo non solo nella prospettiva classica, ma vale anche per l’attualità.
L’arte è autenticamente cultivatio animi. Cosa è l’animo, l’anima? Ci riferiamo a quanto la metafisica ha raccolto in una plurimillenaria tradizione, che oggi potremmo chiamare il più proprio, il principio, quel che più intimamente siamo e possiamo essere, quel che è espresso in tutto ciò che facciamo in quanto persone umane.
La peculiarità dell’arte, entro lo scopo che propriamente pertiene a tutto quanto è cultura, si situa nella bellezza. La bellezza dell’arte, per non perdersi nell’autoreferenzialità, nell’equivocità, nel non-senso, può trovare definizione solo nel riferimento alla bellezza della realtà.
Ma che cosa vuol dire bellezza?
La tradizione –ma ancor prima di essa e a suo fondamento anche una autentica indagine fenomenologica–, lega la bellezza ad un’esperienza dei sensi che eccede gli stessi sensi. Già nella speculazione platonica, la bellezza è delineata nella sua complessità di realtà ideale visibile per gli occhi. Nel Fedro leggiamo: «Per quanto riguarda la Bellezza, poi, come abbiamo detto, splendeva fra le realtà di lassù come Essere. E noi, venuti quaggiù, l’abbiamo colta con la più chiara delle nostre sensazioni, in quanto risplende in modo luminosissimo. Infatti, la vista, per noi, è la più acuta delle sensazioni, che riceviamo mediante il corpo. Ma con essa non si vede la Saggezza, perché, giungendo alla vista susciterebbe terribili amori, se offrisse una qualche chiara immagine di sé, né si vedono tutte le altre realtà che sono degne d’amore. Ora, invece, solamente la Bellezza ricevette questa sorte di essere ciò che è più manifesto e più amabile» [44].
Anche la tradizione scolastica, legge la bellezza come un godimento che parte dalla conoscenza sensoriale ma la esorbita; così nel pensiero di San Tommaso, la celeberrima affermazione «Pulchrum est quod visum placet», vuole significare che del bello conta l’apprensione e in modo speciale il godimento [45]: il bello è “gradevole alla conoscenza” [46], perché il bello richiede di essere “conosciuto” da un essere che ha l’anima.
La parola “estetica”, che dal XVIII secolo va a definire lo studio filosofico della bellezza e dell’arte, di fatto trova origine nel riferimento alla sensazione (anche se lo sviluppo della disciplina appare molto confuso e di fatto difficilmente connotabile).
La fruizione della bellezza, naturale e artistica, si caratterizza per un “piacere” che coinvolge non solo i sensi, ma tutta la persona: emozioni e passioni; ragione e intelletto; si tratta di un piacere non finalizzato all’utile, dunque, un piacere disinteressato, un piacere per piacere: cioè un provare piacere di fronte a qualche cosa che si conosce, senza volerla comprare, possedere, modificare, firmare.
Il piacere che si gode nella conoscenza del bello trova ragione nel fatto che le cose belle sono anche vere e buone.
Ci piacciono gli originali, non le imitazioni, ci piacciono le cose buone, non quelle cattive.
Fin dalla riflessione dei Greci, il tema della bellezza, indagato radicalmente nel suo spessore ontologico, si va a definire nel nesso con il bene. Aristotele, per esempio, circoscrive il bello proprio confrontandolo con il bene: «Poiché il bene e il bello sono diversi (il primo, infatti, si trova sempre nelle azioni, mentre il secondo si trova anche negli enti immobili), errano coloro i quali affermano che le scienze matematiche non dicono nulla intorno al bello e intorno al bene. In effetti, le matematiche parlano del bene e del bello e li fanno conoscere in sommo grado: infatti se è vero che non li nominano esplicitamente, ne fanno tuttavia conoscere gli effetti e le ragioni, e quindi non si può dire che non ne parlino. Le supreme forme del bello sono: l’ordine, la simmetria e il definito, e le matematiche le fanno conoscere più di tutte le altre scienze. E poiché queste forme –ossia l’ordine e il definito- sono manifestamente causa di molte cose, è evidente che le matematiche parlano in qualche modo anche di questo tipo di causa, che appunto in quanto bello è causa» [47].
Secondo san Tommaso il bello e il bene «si identificano nel soggetto, perché si fondano sulla medesima realtà, cioè sulla forma, e per questo ciò che è buono è lodato come bello» [48]. Il bello implica una forma che desta ammirazione e si riferisce all’intelletto, mentre il bene implica una forma che attrae e si riferisce alla volontà. La bellezza si caratterizza per Tommaso come “integritas sive proportio”, ovvero compiutezza, come “debita proportio sive consonantia”, ovvero armonia proporzionale, e come “claritas”, ovvero splendore, corporeo e spirituale. «La bellezza del corpo consiste nell’avere le membra ben proporzionate (debita proportio), con la luminosità del colore dovuto (claritas). La bellezza spirituale consiste nel fatto che il comportamento e gli atti di una persona sono ben proporzionati (proportio) secondo la luce della ragione (claritas)»[49]. Al riguardo sant’Agostino afferma che «Non vi è nulla di ordinato che non sia bello: come dice l’Apostolo, ogni ordine proviene da Dio.»[50]
La dimensione della integritas consente di evidenziare, in modo diverso, il legame tra bello e bene.
Potremmo dire che il godimento della bellezza è gioia nella conoscenza del bene: unisce conoscenza e gioia, coinvolgendo tutta la persona.
La verità dell’arte si definisce come ogni verità: adaequatio rei et intellectus. Se la bellezza è innanzitutto bellezza naturale, solo nella conoscenza e nel rispetto della natura e delle sue regole, l’arte può trovare la sua vera bellezza, la sua verità bella. Molto efficace è il termine leonardiano di “conformità”, che definisce la finalità dell’opera d’arte bella, cioè il tentativo – mai del tutto realizzabile – di essere conforme alla natura. Questo non vuol dire copiare, ma conoscere e saper riprodurre l’ordine, il rilievo, la luce e le ombre, le regole della realtà naturale.
La volontà leonardiana di saper riprodurre i sentimenti dell’anima attraverso i movimenti del corpo mostra il giusto contesto interpretativo della “conformità”: solo chi conosce la vita può dipingere figure “vive”.
L’analogo dell’artista non è il fotografo [51], ma addirittura Dio creatore.
L’artista percepisce il mondo, lo elabora, e lo ripropone dandogli il senso.
Discorso sapiente.
Il discorso sapiente vuole ribadire qual è il fine ultimo dell’arte, ed in modo specifico qual è il ruolo dell’arte sacra, riproponendo di fatto una riflessione sul concetto di “bello”, fondata su una profonda riflessione sull’uomo e su Dio.
Scrive Joseph Ratzinger: «Noi, oggi, non sperimentiamo solo una crisi dell’arte sacra, ma una crisi dell’arte in quanto tale, e con un’intensità finora sconosciuta. La crisi dell’arte è un altro sintomo della crisi dell’umanità, che proprio nell’estrema esasperazione del dominio materiale del mondo è precipitata nell’accecamento di fronte alle grandi questioni dell’uomo, a quelle domande sul destino ultimo dell’uomo che vanno oltre la dimensione materiale. Questa situazione può essere certamente definita come un accecamento dello spirito. Alla domanda su come dobbiamo vivere, su come dobbiamo affrontare la morte, se la nostra esistenza abbia un fine e quale, a tutte queste domande non ci sono più risposte comuni. […] il nostro mondo delle immagini non supera più l’apparenza sensibile e lo scorrere delle immagini che ci circondano significa, allo stesso tempo, anche la fine dell’immagine: oltre ciò che può essere fotografato non c’è più nulla da vedere. A questo punto, però, non è impossibile solamente l’arte delle icone, l’arte sacra, che si fonda su uno sguardo che si apre in profondità; l’arte stessa, che in un primo momento aveva sperimentato nell’impressionismo e nell’espressionismo le possibilità estreme della visione sensibile, resta priva di un oggetto, in senso letterale. L’arte diventa sperimentazione con mondi che si crea da sé, una vuota “creatività”, che non percepisce più lo Spirito Creatore. Essa tenta di prendere il suo posto e non riesce a fare altro che produrre l’arbitrario e il vuoto, che rendere l’uomo cosciente dell’assurdità della sua pretesa creatrice» [52].
Si tratta di una crisi che ha travolto, ancora prima dell’arte, la stessa bellezza di cui dovrebbe essere portatrice, e insieme alla bellezza, trascurata come un accessorio, si sono persi anche il bene e la verità.
Del resto abbiamo già potuto comprendere che il vero e proprio crollo dell’arte è avvenuto nel momento in cui l’edificio del sapere, che era costruito attorno all’arte, ha avuto sottratta proprio la chiave di volta, cioè la bellezza e, portato a compimento tale misfatto, l’edificio si è ripiegato su se stesso ed è crollato in mille pezzi. Da queste macerie si sono prese in continuazione parti e pezzi architettonici, ma è stato impossibile ricostruire a partire da essi un nuovo edificio, senza ricollocare al proprio posto l’elemento statico più importante, l’unico in grado di tenere insieme tutto: la chiave di volta, ovvero la bellezza.
Scrive von Balthasar: «In un mondo senza bellezza – anche se gli uomini non riescono a fare a meno di questa parola e l’hanno continuamente sulle labbra, equivocandone il senso –, in un mondo che non ne è forse privo, ma che non è più in grado di vederla, di fare i conti con essa, anche il bene ha perduto la sua forza di attrazione, l’evidenza del suo dover-esser-adempiuto […] In un mondo che non si crede più capace di affermare il bello, gli argomenti in favore della verità hanno esaurito la loro forza di conclusione logica» [53].
L’allora card. Ratzinger esprimeva con chiarezza i fatti accaduti nella storia delle teorie artistiche ed estetiche degli ultimi due secoli, ribadendo che la perdita del “bello” ha scardinato tutto il complesso edificio nel quale l’arte è il vertice espressivo.
Il discorso sapiente deve, per la sua più intima ragione, non fermarsi alle soglie dell’edificio dell’arte, ma entrarvi dentro e arrivare al suo cuore e quindi parlare dell’arte sacra, che vive una crisi, almeno teorica ed istituzionale.
Relativamente all’arte sacra, cioè arte ordinata alla liturgia, scrive ancora Joseph Ratzinger:
«1. La totale assenza di immagini non è conciliabile con la fede nell’incarnazione di Dio. […] Le immagini del Bello, in cui si rende visibile il mistero del Dio invisibile sono parte integrante del culto cristiano. […] L’iconoclasmo non è un’opzione cristiana.
2. L’arte sacra trova i suoi contenuti nelle immagini della storia della salvezza, a cominciare dalla creazione e dal primo giorno fino all’ottavo: quello della resurrezione e del ritorno, in cui la linea della storia si compie come un cerchio […].
3. Le immagini della storia di Dio con gli uomini non mostrano solo una sequenza di eventi passati, ma fanno vedere in essi l’unità interiore dell’agire di Dio. […] l’immagine di Cristo è il centro dell’arte figurativa sacra […]
4. L’immagine di Cristo e le immagini dei santi non sono delle fotografie. La loro essenza è quella di condurre al di sopra di ciò che è puramente constatabile sul piano materiale e di insegnare un nuovo modo di vedere, che percepisca l’invisibile dentro il visibile. […]
5. […] Nell’arte sacra non c’è spazio per l’arbitrarietà pura. Le forme artistiche che negano la presenza del Logos nella realtà e fissano l’attenzione dell’uomo sull’apparenza sensibile, non sono conciliabili con il senso dell’immagine nella Chiesa. Dalla soggettività isolata non può venire alcuna arte sacra. […] La liberalità dell’arte, che deve esserci anche nell’ambito delimitato dell’arte sacra, non coincide con l’arbitrarietà. […] Il rinnovamento dell’arte nella fede […] presuppone, prima di ogni altra cosa, il dono di una nuova visione» [54].
La storia dell’arte sacra offre infiniti esempi che mostrano la chiesa come il luogo della contemplazione del mistero del Corpo Mistico della Chiesa [55]. Infinite chiese nel corso dei secoli sono state interamente decorate con l’intento di rappresentare tutta la nostra fede, evidenziando come tra immagine e fede esista una profonda ed irrinunciabile relazione; l’arte ha il compito di annunciare il vangelo, di disporre alla preghiera, di predicare la carità in tutte le sue forme e di ornare, attraverso la bellezza delle forme, il luogo di culto.
L’arte da sola non può vivere, essa si nutre di tutto, è per sua natura onnivora, perché è una lingua e quindi è chiamata a parlare di tutto, e quindi sa dire tutto ed è anche in grado di rappresentare ciò che per l’uomo è più importante, ovvero l’oggetto dell’arte sacra [56].
Ma l’arte sacra deve dipendere necessariamente dalle stesse regole del linguaggio biblico -come ci ricorda Eugenio Marino-, e dunque deve essere letta con le stesse regole [57]. L’arte deve tradurre in immagini la forma del testo, rispecchiandone tutte le complessità. Scrive Marino al riguardo: «Inoltre, le espressioni verbali della Parola di Dio – che non possono non specchiare qualcosa dell’infinito “intelligere” del Rivelatore, “il quale comprende simultaneamente tutte le cose”– postulano la ricordanza dei “quattro sensi”: lo storico, il morale, l’allegorico e l’anagogico, cioè una pluralità di significazioni, anche se determinate. La sacra scrittura, infatti non è un’opera aperta, così non lo sono le opere d’arte che dipendono dalla Rivelazione [58].»
Il discorso sull’arte sacra ha una grandissima complessità, perché deve essere anche discorso spirituale; proprio a questo riguardo, il card. Gabriele Paleotti, nel Discorso intorno alle immagini del 1582, fa una lunga avvertenza sulla necessità e l’utilità delle immagini, ponendo l’accento sui rischi che esse corrono, e mettendo in guardia dalle corruzioni e dai soprusi che ad esse si possono recare. Potremmo dire che il suo è un vero discorso profetico sul futuro delle immagini, poiché mostra già piena consapevolezza della fragilità e della delicatezza dell’arte. Paleotti scrive: «Come si fa molta attenzione a non deturpare in alcun modo la bellezza di una veste ricca e preziosa, così, avendo già dimostrato la dignità, l’importanza e l’utilità delle immagini sacre, sarebbe dovuto bastare questa loro eccellenza per eliminare ogni dubbio e per recare loro alcun tipo di deturpazione. Ma la malizia del demonio, nemico di ogni virtù, è così perversa e inveterata che, dal momento che non riesce ad eliminare l’uso lodevole e santo delle immagini, fa in modo che si operino abusi su di esse e se ne vanifichi quindi il valore. E quando il demonio si accorge che non riesce ad operare in alcun modo, cerca di levarci la spada di mano, o quantomeno cerca di rovinare la lama o la punta, o di farcela usare in modo che nuoccia a noi stessi e non al nemico. Sa che le preghiere ci sono di grande aiuto, e allora si adopera per distoglierci da esse e, quando non ci riesce, fa in modo che noi le facciamo per ostentazione e per misera utilità, così che esse ci nuocciano almeno quanto avrebbero invece dovuto esserci di giovamento. Sa che le elemosine ci sono di aiuto, e allora cerca di farci accorciare la mano e, quando non ci riesce, fa in modo che le nostre elemosine vengano fatte in pubblico e davanti a tutto il popolo, così che noi rendiamo le nostre azioni piene di vanagloria, inutili e dannose. Sa anche che l’arte di dar forma alle immagini è stata introdotta ad utilità delle anime, e che con le immagini si può recare grande giovamento al mondo, e proprio per questo ha cercato di toglierci il loro uso e, non riuscendoci, è giunto ad introdurvi tanti di quegli abusi che, la scultura e la pittura, che dovrebbero essere di giovamento a chi le pratica e a tutti gli altri, poco ci manca che non diventino pericolose e dannose agli artisti e a tutti noi. Il demonio vorrebbe privarci del cibo e farci morire di fame, ma quando non ci riesce, ce lo avvelena; non riuscendo cioè a togliere l’uso delle immagini, vi introduce innumerevoli abusi, tanto che ormai esse, se non si interviene, recano più danno che vantaggio. Una città si perde più per un trattato che con un assedio, e per questo il demonio, abbandonato l’assedio con cui voleva eliminare le immagini, sta preparando un trattato: farcele corrompere e riempire di abusi.» [59]
Questa attenzione all’arte e all’utilizzo delle immagini è presente in molti autori nel Cinquecento, tra i quali spiccano san Carlo Borromeo, il cardinal Federico Borromeo e il padre gesuita spagnolo Cipriano Soarez; sulla scia delle istanze borromaiche dello sviluppo dell’arte retorica finalizzata alla predicazione, gli studi sulle immagini conosceranno un ulteriore notevole sviluppo grazie alle autorevoli e rappresentative figure di studiosi e predicatori del calibro di Agostino Valier (1565-1606), del minorita Francesco Panigarola (1548-1594) e del teatino Paolo Aresi (1574-1644). [60]
Per concludere il discorso sapiente, è necessario esplicitare quale sia il fine ultimo dell’arte sacra, ricorrendo ancora alle parole di Gabriele Paleotti: «La Pittura, dunque, in origine aveva il solo scopo di rendere verosimile la realtà, ora per mezzo delle Virtù, si veste di un nuovo valore e, oltre a rendere verosimile la realtà, si eleva ad un fine maggiore mirando alla gloria eterna, distogliendo gli uomini dal vizio e conducendoli al culto di Dio.» [61]
Discorso morale.
Alla fine si giunge necessariamente alla morale della favola ovvero a “’ο μυθος δηλοι”, come ci insegnano gli antichi scrittori. Noi non possiamo esimerci dal trarre le conclusioni, ovvero dal raccogliere nel racconto appena svolto una indicazione morale, che ricerchi la virtù e deplori il vizio.
Moltissima trattatistica artistica medievale e moderna centra il fare artistico sulle virtù, e richiama direttamente l’artista a lavorare non solo per migliorare la tecnica -come è ovvio-, ma a coltivare la propria “gentilezza d’animo”, non guardando l’arte come un mezzo per raggiungere fama e ricchezza. Così Cennino Cennini nel suo famosissimo Libro dell’arte, alla fine del Trecento, scrive nel secondo capitolo del proemio: «Non senza cagione d’animo gentile alcuni si muovono di venire a questa arte, piacendoli per amore naturale. Lo ‘ntelletto al disegno si diletta solo, ché da loro medesimi la natura a ciò gli trae, senza nulla guida di maestro, per gentilezza di animo: e per questo dilettarsi, seguitano a voler trovare maestro e con questo si dispongono con amore d’ubbidienza, stando in virtù per venire a perfezion di ciò. Alcuni sono, che per povertà e necessità del vivere seguitano, sì per guadagno e anche per amor dell’arte; ma sopra tutti quelli, da commendare è quelli che per amore e per gentilezza all’arte predetta vengono.» [62]
L’artista deve vestirsi con l’abito della virtù morale e intraprendere la faticosa impresa di imparare la tecnica, che è certo il mezzo più utile per riuscire nell’arte, ma in una educazione disciplinata che ha come risultato l’ingentilimento dell’animo dell’artista. Nel terzo capitolo, Cennini ancora scrive: «adunque, voi che con animo gentile sete amadori di questa virtù e principalmente all’arte venite, adornatevi prima di questo vestimento: cioè amore, timore, ubbidienza e perseveranza. E quanto più tosto puoi, incomincia a metterti sotto la guida del maestro a imparare; e quanto più tardo puoi, dal maestro ti parti.» [63]
L’artista non compie il suo percorso educativo e formativo senza aver compreso che, oltre alle virtù morali, nella sua crescita artistica e spirituale entrano in gioco anche le virtù teologali, come ricorda il card. Gabriele Paleotti nel Discorso intorno alle immagini sacre e profane, scritto nel 1582: «Quando si parla di un pittore cristiano, come è nostra intenzione, allora il fine del pittore è ancor più distinto dal fine della pittura. Il pittore può cristianamente avere due scopi, uno principale e uno secondario o consequenziale; quest’ultimo è il trarre guadagno o acquisire fama e onore, e le cose che già abbiamo detto, quando però esse siano raggiunte nelle dovute circostanze quanto alla persona, al luogo, al tempo, al modo, e a quanto è richiesto, in modo che non si possa in alcun modo dire che egli eserciti quest’arte in modo biasimevole e che la eserciti contro quello che è lo scopo principale, che consiste nell’acquisire la grazia divina per mezzo dell’arte e della fatica. Il cristiano infatti, nato per le cose sublimi, non si può limitare ad avere bassi scopi nel suo agire, e stare a guardare solo la ricompensa umana e i vantaggi temporali; egli deve invece levare gli occhi in alto e proporsi uno scopo maggiore e più eccellente, che sta nelle cose eterne. Di questo parlava san Paolo quando avvertiva i servitori e gli operai, affinché essi, servendo i loro padroni, si ricordassero sempre di servire innanzitutto il sommo Dio signore di tutti. » [64]
Paleotti, considerando ciò che è buono per l’artista al fine di essere strumento docile al servizio di Dio e della Chiesa, riconduce il discorso del “fare” artistico ad un più alto ideale, che implica una considerazione anche sul suo “agire” come uomo, tanto che l’artista dovrebbe essere un vero testimone e non solo un esecutore d’immagini, come invece una certa ovvietà contemporanea propone.
Ma allora chi è l’artista?
L’artista è colui che possiede l’arte, e potremmo specificare: colui che possiede l’arte come virtù dianoetica, come virtù etica e come virtù poietica. L’arte come virtù dianoetica è recta ratio factibilium. È eccellenza nella ratio. L’arte come virtù etica è rettitudine [65]: implica la conoscenza del bene, la prudenza, la temperanza. L’immagine allegorica della temperanza è una donna che mescola i colori: il giusto mezzo non è un liquido tiepido, ma il giusto tono di colore. L’artista che sa mescolare i colori è la personificazione dell’uomo temperante [66]. L’arte come virtù poietica è capacità di fare, di produrre; implica il possesso del mestiere, della “regola d’arte”, ma che non può essere disgiunto dall’agire che implica la correttezza delle nostre azioni. L’artista può operare in vista del bene comune e del proprio bene solo attraverso lo sviluppo di tutte le virtù cardinali e teologali.
Alla fine delle nostre scorribande, che hanno corso “di qua e di là”, affrontando i punti essenziali dei cinque “discorsi sull’arte”, meditando intensamente sul magistero della Chiesa intorno all’arte, cercando di rifondare un linguaggio artistico universale, capace di dire realmente tutto l’uomo, lavorando al fine di inserire l’arte in un edificio del sapere organico e non disarticolato, nella volontà di rianimare l’umanesimo cristiano, non possiamo che proporre un’immagine: l’arte può essere oggi il destriero che, con la bellezza, riporta la verità e il bene dentro la città degli uomini [67].
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[27] Dalle prime e famosissime applicazioni della psicanalisi alla lettura di opere d’arte da parte di Freud, si arriva agli studi della Gestaltpsycologie (psicologia della forma) che entrano in collisione con le tesi “visibiliste” del pensiero estetico formalista di Riegel, Schmarsow, Wölfflin, Wundt ecc. A questi autori si contrappone il pensiero di Arnheim che piuttosto che ricorrere alla empatia (Einfühlung), per cui si teorizzava la trasposizione di dei dati sensoriali in un opera d’arte vitalizzati dal sentimento umano dell’osservatore, individua alla base dell’espressione artistica una “configurazione di forze”. Cfr., per esempio, S. Freud, L’interesse per la psicanalisi; Il Mosé di Michelangelo e scritti 1913/1914, Roma 1976; H. Wölfflin, I concetti fondamentali della storia dell’arte, Milano 1984; R. Arnheim, Arte e percezione visiva, Milano 1982.
[28] Gli studi di Hauser determinano un particolare taglio dell’analisi storico artistica, in cui l’opera d’arte non viene studiata in tutti i suoi molteplici aspetti e restituita nel significato originario, ma tutto viene letto in chiave marxista. Antal parte dal postulato che le opere d’arte costituiscano solo la verifica di conoscenze acquisite per altre vie d’informazione. Francastel, pur entrando in polemica con Antal e Hauser, polemizza anche con il metodo iconologico di Panofsky. A. Hauser, Storia sociale dell’arte, (1953) trad. it. Torino, 1955; F. Antal, La pittura fiorentina e il suo ambiente sociale nel Trecento e nel primo Quattrocento, (1948) trad. it. Torino, 1960; P. Francastel, Studi di sociologia dell’arte, (1970) trad. it. Milano 1976.
[29] Tra il XVIII e il XIX secolo si assiste ad una progressiva introduzione di elementi “esotici” nelle espressioni artistiche europee, per lo più limitati a alle culture nord africane e a quelle dell’estremo oriente, con l’introduzione progressiva di elementi formali che vengono elaborati all’interno delle tendenze legate alla logica colta del “revival”, inteso in senso “diatonico” e “diacronico”. Artisti come Delacroix, Van Gogh, Wistler e Klimnt vengono affascinati dal Marocco, dal Giappone o dalla Cina; Gauguin parte addirittura per i Tropici alla ricerca del “Paradiso perduto”, ma è con gli studi di antropologia culturale di Franz Boas, che si muovono su quattro campi d’indagine (biologico, linguistico, archeologico e socio culturale), che avviene un vero e proprio impatto sulla concezione artistica contemporanea. In seguito, gli allievi di Boas, Sapir, Kroeber e Benedict, continuano questi studi, influenzando fortemente il pensiero statunitense della critica artistica negli anni sessanta del Novecento. In seguito saranno determinanti gli studi di Claude Lévi-Strauss. cfr. F. Boas, I Limiti del metodo comparativo in antropologia, (1896) trad. it. Bari 1970; A. Kroeber, La natura della cultura, (1952) Bologna 1974; E. Sapir, Cultura, linguaggio e personalità, (1949) Torino 1971; R. Benedict, Modelli di Cultura, (1934) Milano 1960; C. Lévi-Strauss, Il pensiero selvaggio, (1961) Milano 1964; F. Ronzon, Antropologia dell’arte. Dalla pittura italiana del Quattrocento all’arte etnica contemporanea, Milano 2006.
[30] È il caso del teorema di Gödel che ha avuto influenza sulle proposte di Kosuth e il teorema di Tarski che ha avuto influenza sulla teoria di Duchamp. La teoria di Gödel è stata logicamente confutata da Francesca Rivetti Barbò nel 1964. Cfr. F. Menna, La linea analitica dell’arte moderna, Torino 1975, pag. 57, pag. 104; F. Rivetti Barbò, Il teorema e il corollario di Gödel. Indagine critica, Milano 1964; Ead, L’antinomia del mentitore. Da Peirce a Tarski. Studi, Testi, Bibliografia, Milano 1986.
[31] Il confronto delle regole e dei principi dell’arte con l’innovazione tecnologica ha prodotto costantemente uno spostamento del confine stesso dell’arte e un ampliamento dei mezzi messi a disposizione dell’artista, come sostiene, per esempio, Maldonado nei confronti dell’introduzione della tecnologia informatica, ma senza per questo dover necessariamente riconoscere che un prodotto realizzato con tali mezzi possa essere di per sé considerato un’opera d’arte. Di fatto ogni mezzo nuovo è, e dovrebbe essere considerato, semplicemente un mezzo, e non dovrebbe, dunque, ri-fondare l’arte a partire dal modello logico che lo costituisce, come poi di fatto avviene in molte elaborazioni teoriche. Cfr. W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, R. Barilli, il ciclo del postmoderno, Milano 1987;T. Maldonado, Reale e virtuale, Milano 1992; R. Debray, Vita e morte dell’immagine, Milano 1999; P. Lévy, L’intelligenza collettiva. Per una antrolopogia del cyberspazio, Milano 2002; J. Baudrillard, Il delitto perfetto, Milano 1996.
[32] Nel corso dei miei studi ho cercato di rintracciare l’intero discorso culturale, teologico e spirituale presente nell’opera artistica caravaggesca, al fine di costruire una corretta lettura iconologica capace di leggere tutti i complessi rimandi di cui è composta: Cfr. R.Papa, Caravaggio. Vita d’artista, Firenze 2002-2007; Id, Caravaggio pittore di Maria, Milano 2005; Id., Caravaggio. Gli ultimi anni, Dossier n. 205, Art e Dossier, Firenze 2004; Id., Caravaggio. Gli annai giovanili, Dossier n. , Art e Dossier, Firenze 2005; Id., Caravaggio. L’arte e la natura, Firenze 2008.
[33] Anche Leonardo è vittima di pregiudizi di varia natura che impediscono di vedere ciò che è in realtà molto evidente all’interno di una seria e corretta analisi iconologica: Cfr. R.Papa, La scienza della pittura. Analisi del “Libro di pittura” di Leonardo da Vinci, con presentazione di Carlo Pedretti, Milano 2005; R. Papa, Leonardo teologo. L’artista “nipote di Dio”, Milano 2006.
[34] Esempio di questa tendenza sono gli scritti del francese Georges Didi-Huberman, che riproponendo il modello waburghiano di Mnemosine è alla ricerca di categorie sovrastoriche, affermando di fatto uno statuto anacronistico dell’immagine. Interessante il collegamento che si può fare tra questi modelli anacronistici e alcune esperienze artistiche delle avanguardie novecentesche. Didi-Huberman parte da un pannello decorativo di un affresco di Beato Angelico nel Convento di San Marco a Firenze, rappresentante una lastra di porfido rosso, realizzata con uno spruzzo di colore gettato quasi per caso, per creare un paragone con l’informale e l’action painting, definendo la storia come luogo di anacronismi. Su questa linea, è interessante fare riferimento a un autoritratto in calco di Marcel Duchamp, Con la lingua nella guancia, 1959 o ai ritratti in calco di Yves Klein, Ritratti-rilievo, 1962 o ancora ai calchi in gesso di Georges Segal, Motel Room, 1967; questi sono la riproposizione dotta di antiche pratiche della classe senatoria romana, già descritte nel Libro XXXV, della già citata Naturalis Historia di Plinio il Vecchio. Cfr. Plinio il Vecchio, op. cit., XXXV, 6-7: I colori minerali (trad. it. cit., vol. V, pag. 299); G. Didi-Huberman, Storia dell’arte e anacronismo delle immagini, (2000) trad. it , Torino 2007, pp. 13-58.
[35] U. Eco, Opera aperta, Milano 1962.[36] Cfr. F. Menna, Critica della critica, Milano 1980; M. Carboni, L’impossibile critico, Roma 1985; P. Fonticoli, Achille Bonito Oliva. La critica d’arte come arte della critica, Milano 1985.[37] Cfr. A. Bonito Oliva, Il tallone di Achille. Sull’arte contemporanea, Milano 1988; Id, Transavanguardia, “Art e Dossier”, Dossier n. 183, 2002; Id, P. Balmas, L. Hegyi, M. Abramovich, La coesistenza dell’arte: un modello espositivo, Venezia 1993.
[38] P. Montani, con A. Ardovino e D. Guastini, Arte e verità dall’antichità alla filosofia contemporanea Un’introduzione all’estetica, Roma-Bari 2002.
[39] Cfr. G. Fonio, Apollo e la sua ombra. Il corpo e la sua raffigurazione, Milano 2007.[40] Dopo le analisi fatte da Hegel sull’arte, il suo allievo Karl Rosenkranz nel 1853 scrive l’Estetica del brutto, nel quale analizza in una riflessione estetica il “sosia negativo del bello” e cioè il “lato d’ombra della figura luminosa del bello”. Se per Hegel il bello è manifestazione sensibile della libertà, il brutto per Rosenkranz è limitazione e negazione di questa libertà e, pur ripugnante, lo attrae. Subito dopo, nel 1872 Nietzsche pubblicherà La nascita della Tragedia nel quale vengono riproposti questi due poli antinomici bello-brutto, apollineo-dionisiaco. Ma l’arte non ha più in Nietzsche la possibilità conoscitiva del vero, rappresentando l’orizzonte dei nostri interessi spirituali. Cfr. K. Rosenkranz, L’estetica del brutto, con prefazione di R. Bodei, Palermo 1994; F. Nietzsche, La nascita della Tragedia, con prefazione di G. Colli, Milano 1984.[41] Emblematico è il fatto che in un monumento bibliografico come l’Enciclopedia Universale dell’Arte, pensata e realizzata, a cavallo degli anni cinquanta e sessanta del Novecento, come strumento indispensabile per artisti e studiosi, alla realizzazione della quale sono stati chiamati i più grandi specialisti del momento, non esista la voce “Bello” e non ne viene proposta alcuna definizione teorica e filosofica.[42] Tommaso d’Aquino, Super evangelium S. Joannis lectura, 15, l. 1.[43] W. Jaeger, Paideia, Firenze 1953 (ed. or. Berlino-New York, 1936-45).[44] Platone, Fedro, 250 D-E[45] Per una approfondita disamina di quale questione. Cfr. A. Monachese, La bellezza come nome di Dio nel pensiero di Tommaso d’Aquino, Tesi di dottorato, Pontificia Università Urbaniana, Roma 2008.[46] Tommaso d’Aquino, Summa theologiae, II-II, 27, 1, ad 3um[47] Aristotele, Metafisica, XIII, 3, 1078 a32- b4.[48] Tommaso d’Aquino, Summa theol., I, 5, 4, ad 1um.[49] Ibid., I, 39, 8[50] « Nihil enim est ordinatum, quod non sit pulchrum. Et sicut ait apostolus: Omnìs ordo a deo est» Agostino, De vera Religione, cap. XLI (trad. it. a cura di O. Grassi, Milano 1997, pag. 136).[51] Qui sarebbe opportuno fare un lunghissimo discorso sui fraintendimenti che una certa storia dell’arte ha operato riguardo la produzione di mezzi tecnologici per la riproduzione misurata del mondo reale, quali prospettografi, camere oscure e la realizzazione delle prime macchine fotografiche. L’artista si è sempre avvalso di mezzi tecnici più o meno sofisticati per riprodurre l’esatta misura dell’oggetto da ritrarre, ma questo non ha mai comportato la diminuzione del valore creativo dell’artista stesso. Al riguardo sono interessanti, E.H. Gombrich, Arte e Illusione, (1952) Torino 1965; Id., L’eredità di Apelle, (1976) Torino 1986; M. Kemp, La scienza dell’arte. Prospettiva e percezione visiva da Brunelleschi a Seurat, (1990) Firenze 1994; H. Schwarz, Arte fotografia, (1985) Torino 1992.[52]J. Ratzinger, Introduzione allo spirito della liturgia, Cinisello Balsamo Milano, 2001 (ed. or. 1999), pp. 126-127.[53] H. U. von Balthasar, Gloria, vol. I, La percezione della forma, Milano 1971, pp. 10-12.[54] J. Ratzinger, Introduzione allo spirito della liturgia, Cinisello Balsamo Milano, 2001 – ed. or. 1999, pp. 127-131.
[55] R. Papa, Lo spazio liturgico come Corpo Mistico della Chiesa, Lezione annuale d’introduzione all’Arte Cristiana, Seminario “Sedes Sapientiae”, 7 settembre 2007; Id, La chiesa come rappresentazione del corpo mistico della Chiesa, in “Via, Verità e Vita”, n.2, marzo-aprile 2008.
[56] Id., L’arte cristiana ed il magistero, in “Studi cattolici”, n. 524, ottobre 2004, pp. 763-766
[57] Padre Eugenio Marino propone il termine Iconoteologia, utilizzando la definizione di lingua proposta da Saussure e combinandola con i termini della metafisica: Recta ratio factibilium – lingua; Vidêre – intellìgere – crédere. che sono il “Tutto dell’esperienza “estetica”. In rapporto a quanto si legge: “legere-audîre”. Propone così una omologia dell’espressione-verbale della Sacra Scrittura con l’espressione-figurativa dell’arte. E. Marino, Estetica, Fede e Critica d’Arte, Pistoia 1997.[58] Ibid., pag. 234. [59] G. Paleotti, Discorso intorno alle immagini sacre e profane, (1582) a cura di S. Della Torre, Città del Vaticano, 2002, Libro II, cap. I: Il demonio, non riuscendo ad eliminare l’uso delle immagini, vi introduce gli abusi, pp. 105-106.[60] Come il sentimento religioso medievale si era nutrito delle figure scolpite sui portali e sui capitelli delle cattedrali, così la spiritualità cattolica moderna, nata anche da battaglie iconoc1aste, attinse parte della propria forza e energia dalle immagini. Con chiara e determinata coscienza la Chiesa postridentina fece ricorso alle risorse della visualità per alimentare sia la vita interiore del credente sia la coscienza collettiva. Per comprendere appieno il significato ed il valore della poderosa raccolta di imprese sacre dell’ Aresi, occorre situarla nel contesto delle riflessioni coeve sull’utilità e sull’impiego delle immagini in ambito religioso. Attraverso le teorie tridentine la Chiesa fece un ampio utilizzo strategico delle immagini per adempiere la sua missione cherigmatica, sviluppando non solo pittura, scultura e architettura come ovvio, ma operando in altri campi del sapere come l’emblematica. Cfr. E. Ardissimo, Il Barocco e il sacro. La predicazione del teatino Paolo Aresi tra letteratura, immagini e scienza, Città del vaticano, 2001.[61] G. Paleotti, Discorso intorno alle immagini sacre e profane, (1582) a cura di S. Della Torre, Città del Vaticano, 2002, Libro I, cap.XIX Fine particolare specifico delle immagini cristiane, pag. 67.[62] Cennino Cennini, Il libro dell’arte, Vicenza, 1982, cap. II, pp. 5-6.[63] Ibid., cap. III, pag. 6.[64] G. Paleotti, Discorso intorno alle immagini sacre e profane, (1582) a cura di S. Della Torre, Città del Vaticano, 2002, Libro I, cap.XIX Fine particolare specifico delle immagini cristiane, pag. 67.
[65] Cfr. R.Papa, La bellezza come inclinazione naturale, in La ley natural, Convegno Internazionale, Universidad de Navarra, Pamplona, 27-29 marzo 2006.
[66] Cfr. Id., La lettera del Papa agli artisti: uno stimolo culturale e un conforto spirituale, in “Atti del Convegno della Cappellania degli Artisti di Siena”, a cura della Diocesi di Siena, Siena 1999.
[67] Cfr. Id., Bellezza ed arte alla luce di San Tommaso, in “Bellezza e trascendenza in Tommaso d’Aquino”, Società Internazionale Tommaso d’Aquino, Abbazia di Fossanova, 5 maggio 2006.