Questi interventi si sono susseguiti in about, qui a fianco. Immagino quindi che non li abbia visti nessuno, e sarebbe un peccato. Li metto qui in successione.
paolo Dice:
Gennaio 26, 2008 alle 6:21 pm
La riforma liturgica che di fatto è stata attuata in seguito al Concilio Vaticano II, può essere identificata con due novità, le più evidenti: le lingue vernacolari e l’altare verso il popolo.
Delle due novità più evidenti l’unica prescritta dai documenti conciliari è l’introduzione delle lingue parlate che ha reso comprensibili i testi liturgici a tutti i fedeli, chiamati ad una “partecipazione attiva e consapevole” all’azione liturgica (Costituzione sulla sacra Liturgia Sacrosanctum Concilium n 36).
L’altare rivolto al popolo, seppure non sia prescritto da alcun documento conciliare, ma nemmeno vietato, fu una scelta che in breve tempo si diffuse in tutta la Chiesa Cattolica, imponendosi come la norma. Questo ha profondamente inciso sulla dinamica della preghiera liturgica. A mio avviso il cambiamento inerente l’altare è solo un capitolo del secolare disorientamento teologico-spirituale da cui è afflitta la Chiesa, disorientamento interiore che si rende visibile nel disorientamento spaziale degli edifici di culto.
Io reputo che l’orientamento della preghiera sia un suo elemento essenziale, poiché: “Nessuno ha mai visto Dio; l’Unigenito Iddio che è rivolto verso il seno del Padre, lui ne mostrò la via” (Gv 1,18).
Ritengo che l’orientamento sia inscindibilmente interiore ed esteriore, teologico e architettonico, spirituale e materiale, metafisico e fisico, eterno e temporale; ciò perché riflette la natura misteriosa, ovvero irriducibile ad una delle sue dimensioni dell’essere umano, composto da corpo, anima e spirito.
Qual è il tuo parere?

Gennaio 26, 2008 alle 10:49 pm
Ci provo. Penso che la liturgia non sia un monolite ma corpo vivo, come la Chiesa. E la vita perché vivi abbisogna di identità e differenza. E l’unica attività umana che distingue l’uomo (e quindi costitutivamente, cioè nel rapportarsi dell’umano all’essere) dal resto dei viventi è la creatività. Con Dio condividiamo, per analogia, il dono della capacità creativa. E la creatività è rivoluzione assiomatica, salto, ma non equivocità (dove vigerebbe solo l’avventura della differenza). Infatti, tutto è lecito, non tutto giova. Creatività allora si dà nel rapporto all’assoluto, assoluto che governa e dirige il muoversi della creatività nel mistero. E la fede ci dice che questa creatività è sostenuta nell’amore.
Se il gesto dell’uomo non è creativo non è propriamente umano. Ma creatività non è solo novità, ma anche scoperta e riscoperta autentica di un pensiero creativo. Anche la liturgia deve essere riscoperta, rivissuta, ricreata. E’ infatti opus dei, anche proprio per quella partecipazione del dono della creatività.
La liturgia non può essere soggetta alla sola differenza: la creatività senza identità è arbitrio. La liturgia non è umana se permane nella sola identità.
Perché allora è stato possibile l’arbitrio liturgico (non sempre e in modo indiscriminato, ma comunque c’è stato e c’è tutt’ora), quel “tana libera tutti” dopo il Concilio Vaticano II? Perché una liturgia fissista, non ricreata, non riscoperta ma reiterata, era diventata ormai incomprensibile, un “celebrare alla parete” come ricorda Ratzinger in La Festa della fede. I gesti della liturgia se non ricreati e/o riscoperti nella loro validità dirimente diventano entropici come evidentemente era diventata la liturgia di Pio V (altrimenti ripeto non ci sarebbe stato quel diffuso arbitrio del dopo Concilio).
Penso che la celebrazione verso il popolo costituisca un’innovazione coerente e sottolinei l’aspetto della partecipazione alla mensa eucaristica. Condivido il pensiero di alcuni importanti liturgisti che il rivolgersi del sacerdote al crocifisso, e quindi all’eschaton, insieme all’assemblea sarebbe importante e che dovrebbe distinguere e sottolineare maggiormante alcuni momenti della liturgia. Penso che l’attenzione data alla Parola dal nuovo ordinamento sia importante perché vitale per la fede (anche se proprio vogliamo secondario rispetto al dono della Parola fatta carne ovvero della sua Persona nell’Eucaristia) e che mi dà fastidio quando il lettore non legge bene. Penso che alla fin fine non sono un liturgista e che il mio parere non vale tanto…
Gennaio 27, 2008 alle 9:43 pm
“I gesti della liturgia se non ricreati e/o riscoperti nella loro validità dirimente diventano entropici”: non saprei dire di meglio!
Però la questione dell’altare “versus populum” difficilmente può coincidere con quella della “comune partecipazione alla mensa eucaristica”, né si può risolvere dicendo, come nei nostri gruppi giovanili, che “Gesù non ha costruito un ara sacrificale; si è messo a tavola con i suoi”.
Così si rischia di confondere il “segno profetico” (il pane e il calice del vino), l’ “evento fondatore” (il sacrificio della Croce) e la “reiterazione rituale dell’evento fondatore” (l’Eucaristia); la celebrazione eucaristica “prende” i segni profetici e li inserisce in una sequenza rituale che ci incorpora nel Sacrificio che ci costituisce. La Messa non è dunque la ri-presentazione dell’Ultima Cena, ma del Mistero Pasquale in toto (Croce – Risurrezione – Ascensione – Pentecoste). Ratzinger teologo (Festa della Fede) analogamente diceva che l’Ultima Cena detta il contenuto dogmatico dell’Eucaristia (l’istituzione, per usare un termine che oggi non piace), ma non la forma rituale.
Qual è la via di uscita “rituale”? Direi che la via d’uscita è proprio la dimensione “rituale”. E qui soccorrono l’etnologia e la fenomenologia della religione (in singolare convergenza con il dato dogmatico): un pasto rituale non è irrelato, ma dice sempre dipendenza da un sacrificio.
Come la tradizione cristiana ha recepito questa evidenza e l’ha iconizzata? In modo multiforme, certo. Ma l’iniziale tavola del Signore (non una tavola qualunque, ma sempre “dedicata”), anche quando era semplicemente tale, si è sempre pensata in comunione con l’avvenimento della Croce. Poi, a conferma, è venuta la scelta di erigere l’altare sulla tomba di un martire, cioè di chi più di ogni altro è stato esistenzialmente unito alla Croce di Cristo: ed ecco esplicitarsi il suo carattere di “ara del sacrificio”. Il progressivo “innalzamento” dell’altare non è stato, dunque, una perversione del primitivo celebrare (come sostiene un tedioso cliché), ma il recupero cristiano di un significato (ancora latente, per mera contingenza storica) ad un tempo pre-biblico, biblico e cristologico: l’altare come “luogo elevato”, dove avviene l’incontro decisivo tra la trascendenza del divino e il legame con l’umano (il Crocifisso stesso è innalzato).
È stato dunque il provvidenziale approdo all’autentica teologia liturgica dell’altare cristiano: in Cristo (altare, vittima e sacerdote) esso è inscindibilmente “ara del sacrificio (= la Croce)”, “mensa del sacro convito”, “santo monte della definitiva alleanza tra Dio e l’uomo”.
Che c’entra tutto questo con il “versus populum”? Il problema sono le discrasie generate dall’incongrua ricezione di questa modalità celebrativa.
È modalità celebrativa comunionale? Certo! Ma il pasto rituale, all’origine, non aveva la disposizione che noi moderni usiamo per pranzo e cena (che vediamo raffigurata nella Cena leonardesca e, con piatta e banale riproposizione, nelle messe di certi movimenti religiosi attuali): aveva un “capo-tavola”, decisamente più cogente.
E comunque “altare verso il popolo” non necessariamente significa (come in una acritica acquiescenza a ideologie assembleariste, orizzontaliste, negatrici del trascendente …) né altare “in mezzo (geometricamente parlando)”, né altare “sbattuto in faccia”.
È forse venuto il momento propizio di necessari radicali correttivi (nella mentalità e nelle realizzazioni), che la tradizione – non tanto e non solo “tridentina” – conosce bene: tanto per iniziare, l’intima connessione con il Crocifisso (iconostasi latina, la definiva Ratzinger teologo), il rilancio del presbiterio e delle soglie di accesso… e, infine, il ritrovamento del ciborio/baldacchino e del suo simbolismo (l’effusione dello Spirito).
La presenza del ciborio/baldacchino consentirebbe di integrare le diverse visioni celebrative (anche di chi vorrebbe che, durante il canone, tutti pregassero con lo sguardo “rivolto verso l’alto”): dal e ciborio il CROCIFISSO dovrebbe “discendere”, così sarebbe sospeso sopra l’altare, ma non direttamente a contatto, a modo di suppellettile.
E non sarebbe affatto senza significati teologico-liturgici.
Gennaio 28, 2008 alle 10:01 pm
Nel dibattito vorrei evitare di incagliarmi nelle secche sterili della contrapposizione tra progressisti che fanno il tifo acriticamente per il Vaticano II e la successiva riforma liturgica da una parte e conservatori che non vedono altro che gli abusi altrui, cantando acriticamente le lodi del Tridentino e della sua liturgia.
L’orientamento della preghiera è la questione. Tanto più perché non conosco un trattato scientifico o documento ufficiale sulla preghiera o sulla liturgia che riconosca l’orientamento della preghiera come una questione teologico-spirituale fondamentale.
Per i mussulmani è fondamentale conoscere l’esatta direzione della Mecca per rivolgersi ad essa nella preghiera. Gli ebrei pregano in direzione di Gerusalemme. Gli indù pregano rivolti verso il proprio Sé (l’Atman che si identifica nel Brahman). La necessità di un centro è universale, sotto forma di polo, ombelico, asse del mondo.
Per i cristiani il centro è Gesù Cristo. Un centro sui generis perché policentrico, essendo presente dove due o tre siano riuniti nel suo nome, realmente presente ovunque venga celebrata l’Eucaristia. Un centro sui generis perché eccentrico rispetto al mondo, sia nell’ordine dell’essere, poiché Egli è l’incarnazione della seconda Persona della Trinità ed in quanto Dio è prima del mondo; sia nell’ordine dell’esistere, dato che con la sua ascensione ha concluso la sua missione terrestre, iniziando la sua missione celeste di primo avvocato difensore alla destra del Padre e facendoci iniziare l’attesa del suo Ritorno come Giudice escatologico.
Perciò i cristiani scelsero di pregare rivolti ad oriente, la direzione che meglio esprime il carattere eccentrico del cristocentrismo orante, che rivela l’attesa escatologica dello Sposo.
Nei secoli si è molto affievolita l’attesa escatologica che anima gli scritti del NT: l’invocazione “maranathà” è divenuta formula vuota e incompresa; il tempo dell’attesa si è ridotto alle quattro settimane d’Avvento, ma con un cambio di prospettiva non indifferente, non più l’attesa della Parusia (l’unica possibile attesa) e della trasfigurazione della carne, quanto l’assurda attesa della prima venuta, l’incarnazione del Verbo. Il “già” prende il posto del “non ancora”.
Prima si è persa quest’anima e poi anche il corpo si è deformato. I cristiani, ben prima di Beckett, come Godot non sanno più chi aspettano. Quindi anche le loro chiese non sono più orientate, ma plasmate dal caos primordiale. La deformazione degli edifici di culto cristiani ha avuto inizio con la perdita del loro orientamento spaziale, conseguenza del disorientamento spirituale di chi li edifica e causa di disorientamento per chi vi prega.
Penso che il recupero e/o l’introduzione della Croce, sospesa sopra l’altare, con o senza il ciborio, ma non appoggiata come suppellettile, sia un primo passo utile e necessario per riorientare la preghiera dei cristiani.
Un secondo passo potrebbe essere la riflessione sulla possibilità di usare tutti e quattro i lati dell’altare. Mi spiego. Sia l’uso tridentino che quello vaticano sono essenzialmente statici: il sacerdote prende una posizione rispetto all’altare e quindi rispetto all’assemblea e quella rimane per tutta la messa. L’ideologia che sottosta e che informa la Chiesa secondo l’uso tridentino dell’altare è altrettanto clericale di quella vaticana, in seguito alla staticità del sacerdote. Nell’uso tridentino lungo il solo asse verticale: assemblea – sacerdote – altare, effetto di una comprensione dell’Eucaristia solo come sacrificio. Nell’uso vaticano lungo il solo asse orizzontale: sacerdote – mensa – assemblea, effetto di una comprensione dell’Eucaristia solo come banchetto. In entrambi i casi si ha una riduzione del Mistero celebrato ad un suo aspetto, una perdita in cattolicità della fede.
Non sarebbe meglio integrare le due prospettive e i due assi, usando i due lati maggiori dell’altare? Quando il sacerdote si rivolge a Dio a nome della Comunità dovrebbe andare davanti all’altare, sia nella navata giù dai gradini che nel presbiterio sopra i gradini. Viceversa quando il sacerdote di rivolge alla Comunità a nome di Dio dovrebbe andare dietro l’altare. Il moto regolare ed armonico del sacerdote attorno all’altare, mostrerebbe visivamente lamediazione compiuta una volta per tutte dall’unico Sommo Sacerdote.
Gennaio 29, 2008 alle 10:22 pm
Sono spunti interessantissimi. Da parte mia solo alcuni rilievi.
Non sottovaluterei assolutamente il ciborio, anzi lo ritengo primario, l’autentico correttivo dell’informe disarticolazione spaziale degli ultimi decenni (e della rigida rubricistica dei luoghi, propria dei decenni ancora precedenti): “manda il tuo Spirito, tutto è ricreato, nuova è la faccia della terra”.
La fruizione dei lati dell’altare. Qui si dà per scontata la forma liturgica ordinaria, quella di Paolo VI, perché in quella tridentina il problema (apparentemente) non sembra porsi. Un primo aspetto è il presbiterio (“bema”, il rialzo da cui emerge l’altare; questo rialzo mitiga e ricodifica l’enfasi conviviale del “versus populum”): non è il luogo dove i preti stanno, ma dove vanno; non un comodo prender posto, ma una soglia iniziatica di accesso: “introibo ad altare Dei”. Nel suo imprescindibile “L’estro di Dio”, Sequeri coraggiosamente paragona i riti introduttori dell’antica e della nuova liturgia, dimostrando che l’antica è più fedele alle evidenze rituali native (e lo fa da teologo conciliarissimo, non da esteta retrogrado).
I lati sono quattro, non due: quelli laterali servono a concelebranti, diaconi e ministranti; uno è il Sommo Sacerdote, uno sia il Celebrante in persona Christi, il c.d. presidente (come uno è il pane, uno è il calice): a lui e solo a lui spetta il lato principale, come a lui e solo a lui spetterebbe la distribuzione dell’Eucaristia; non è questione dogmatica, ma di verità del segno liturgico: anche i con-celebranti celebrano e consacrano, ma cum/sub.
Ciò è vitale spt per l’attuale celebrazione “versus populum”. E non si capisce perché questo oggi sia chiaro per il Vangelo e non per il Corpo e Sangue di Cristo.
All’altare si va e intorno all’altare si gira: la circumbulazione offertoriale connessa all’incensazione è solo il principale degli esempi; non gesto funzionale, ma strutturale, che eredita e transvaluta il gesto apotropaico che si perde nella notte dei tempi. Strano che nessuno ci faccia caso.
Grazie.
Gennaio 30, 2008 alle 7:32 am
Mi tocca aggiungere un’ultima cosa; il lato principale dell’altare, quello rivolto a oriente, deve essere messo in sommo rispetto: è il luogo della venuta di Cristo, quello dell’escatologia realizzata, quello dell’Oltre divino che non ha oltre umano. Nell’antica liturgia esso era anche materialmente inaccessibile; nella nuova, comunque rielaborata secondo le intenzioni dell’attuale Papa, deve essere “spiritualmente” tale: per intenderci, nessun seggio presidenziale sopra o aldilà; al limite il tabernacolo, come luogo di adorazione perpetua. Quanto ai gesti, vi lascerei non utti i rivolgimenti all’assemblea, ma solo quelli che esprimono l’escatologia realizzata: il Gloria, le ostensioni del Pane e del calice, l’Ecce Agnus Dei, la benedizione finale (senza il buona domenica a tutti); il culmine dell’adorazione della croce del Venerdì Santo e l’ostensione finale della benedizione eucaristica. Altro discorso sarebbe quello dei movimenti di partenza e ritorno dall’altare, ma per un’altra volta …
Febbraio 2, 2008 alle 7:17 am
Finalmente trovo il testo cercato.
Si tratta del pregevole articolo di P. Sorci “Per una teologia dell’altare”, presente in AA.VV. Gli spazi della celebrazione rituale, 1984 Milano, alle pp. 63-87. Il libro è stato recentemente riedito altrove, ma con una gravissima omissione (indovinate un po’: l’articolo sul CIBORIO!).
Il passo (la nota 89) che metto in rilievo è alle pp. 81-82 e tratta dell’ “Ordo Dedicationis Ecclesiae et Altaris” del 1977. Per completezza di discorso metto insieme testo e nota; alcune affermazioni che sottolineo con i “???” mi sembrano alquanto problematiche (spesso infatti la critica alla sacralizzazione e l’enfasi sull’assemblea, certamente in sé accettabili, fungono da “nientificatore di discorso”), ma l’insieme è quanto mai di valore.
«Il rito comprende gli elementi già elaborati dalla tradizione, ma articolati in modo da evitare qualsiasi tipo di sacralizzazione [???] e mettere in primo piano [???] la comunità cristiana e l’azione che la raduna … più che dell’altare si chiede la santificazione dei fedeli che dedicano l’altare … Il rito, notevolmente snellito, presenta agli occhi dei fedeli l’itinerario di iniziazione (battesimo, cresima, eucaristia) da essi percorso per divenire conformi a Cristo, sacrificio a Dio gradito e sacerdozio regale, che nella cena pasquale partecipa al sacrificio di Cristo per essere con lui altare vivo e sacrificio al Padre».
Il testo prosegue alla nota 89.
«E qui sta anche … [cfr. P. Sorci, Per una teologia dell’assemblea, «Ho Theologos» 21 (1979) 64], il limite dei nuovi riti di dedicazione. La liturgia non è una lezione di catechismo: essa è didattica, ma certamente per vie diverse dall’analisi delle idee ordinate, chiare e distinte. Indubbiamente era assai più espressivo il vecchio rito in cui tutti i gesti partivano dall’altare per estendersi alla navata, a rappresentare come Cristo di cui l’altare è il simbolo, e il mistero che su di esso si fa presente, è la fonte del sacerdozio dei cristiani e la causa di ogni grazia e santificazione. Infelice sembra , poi, l’idea di avere voluto raccogliere tutti gli elementi teologici relativi all’altare nei praenotanda e nei testi eucologici del capito IV [dedicazione dell’altare], che costituisce in fondo una soluzione eccezionale, mentre nel capitolo II che presenta la celebrazione tipica e normale (la dedicazione della chiesa della chiesa e dell’altare), tutto teso ad esaltare il mistero dell’assemblea cristiana, assolutamente secondario risulta il ruolo dell’altare. Per cui non ci sentiamo di sottoscrivere al plauso pressoché unanime che ha accolto questo libro del nuovo pontificale romano».
Il fatto che l’autore, a distanza di anni, abbia conservato immutato il testo, è significativo.
Grazie Paolo (e ovviamente a Luigi), scusate per il ritardo con cui riappaio. Questi interventi, come già mi era stato suggerito, andranno riorganizzati in un percorso che inzia dal sagrato fino all’abside (tempo permettendo).
Paolo. La cripta per i battezzati, come i Martiri e i Santi morti e rinati in Cristo. Hai esempi di battisteri costruiti sotto la cripta [intenzionalmente, e non perché ci hanno letteralmente costruito sopra]? Col Vaticano II in effetti si è privilegiata la costruzione del battistero vicino all’altare (rimanendo sullo stesso piano) proprio per sottolineare il legame al mistero eucaristico. Ma a me le soluzioni viste appaiono deboli, dispersive.
Nella verticalità che tu descrivi i segni sono più adeguati a mostrarne compiutamente il significato. Ne offri una lettura sincronica. C’è poi la lettura diacronica e tradizionale, diciamo così, del battistero fuori o in fondo alla chiesa che esplicita l’elemento di processione, di direzione e avvicinamento del battezzato alla pienezza dell’Eucaristia.
Grazie a tutti per le riflessioni.
Luigi non conosco esempi di battisteri intenzionalmente costruiti nella cripta (non sotto la cripta). L’idea è una mia inutile proposta per rendere evidente architettonicamente, per mostrare plasticamente attraverso la forma dell’edificio di culto, l’idea teologica.
Non sono partito da esempi concreti già esistenti perché non ne conosco (anche se non escludo che ve ne siano e mi piacerebbe scoprirlo), bensì dalla riflessione personale sul legame tra fede liturgica e la forma che potrebbe/dovrebbe avere il luogo della sua celebrazione ecclesiale.
Voglio precisare che tale riflessione non è fatta a tavolino (sono cosciente che mi manca la dimensione conoscitiva frutto dello studio), ma soltanto in ginocchio.
Quest’estate ho visto un esempio di battistero nella cripta della Cattedrale di Boiano, in Molise. Si tratta di una soluzione recente, in quanto i lavori di risanamento della chiesa hanno reso necessario convogliare le acque di un fiume interrato che insidiavano la struttura. Al parroco don Angelo Spina (oggi vescovo di Sulmona) è venuto in mente che quell’acqua potesse servire per una celebrazione suggestiva e simbolica del sacramento del battesimo.