Portando Christoph Büchel all’estremo

Quella che segue è una riflessione sul padiglione dell’Islanda alla Biennale d’Arte di Venezia.

In breve il fatto è questo: nella chiesa (non utilizzata, ma non per questo sconsacrata) di S. Maria della Misericordia l’artista Christoph Büchel vi ha installato una moschea e vi ha invitato la comunità islamica a svolgerci il proprio culto.

L’installazione si basa sull’aver creato una confusione di tre soglie: chi varca la porta entra in una chiesa, che contiene un’installazione artistica, che contiene una moschea. La richiesta di togliersi le scarpe per entrare evidenzia la contraddittorietà implosiva delle tre scatole. L’esito non può che innescare una contrapposizione tra cristianesimo e islam attraverso una tipica crisi mimetica: il desiderio di possesso dell’uno fa accrescere il desiderio dell’altro in una escalation che, solitamente, ha il suo esito nella violenza.

C’è da augurarsi che questo non avvenga (il modello da seguire in questi casi può essere “l’episodio dell’adultera”: Cristo adotta una posizione ferma ma senza sfida; infatti da un lato disinnesca verbalmente la prima pietra che fa scattare la sassaiola della lapidazione, dall’altro abbassa lo sguardo evitando di creare l’inciampo su cui s’impenna il climax della contrapposizione violenta).

Detto questo, vorrei far notare la violenza intrinseca, anche se ben dissimulata, della scelta operata dall’artista.

L’installazione si basa su un impianto teoretico tipico della modernità: tutto è rappresentazione. Qui la ragione (quella moderna, quella da Cartesio in poi) incasella e dispone a piacimento tutto quello che le passa davanti, perché tanto tutto quello che le passa davanti non esiste se non per il soggetto. La ragione non esce dalla rappresentazione: tutto quello che uno vede non è che un gran teatro e il soggetto ne è l’impresario.

Nel caso dell’installazione effettuata nella Chiesa della Misericordia, l’artista ha svuotato il luogo ma non si è tolto. Si è invece astratto. Si è riservato, come un dio, l’angolo da cui guardare la scena che si anima. Il punto di vista dell’artista è quello che ha avviato e ora domina la rappresentazione. E’ lui l’impresario teatrale. Di conseguenza non c’è nulla di più violento dei visitatori che si tolgono educatamente le scarpe e come spettatori si mettono a guardare, a fotografare, gli altri che pregano. Se la preghiera è rapporto ed eccedenza, qui viene invece inscatolata e resa disponibile in un packaging esotico. Negli sguardi degli spettatori c’è la riduzione della realtà a rappresentazione, c’è l’oggettivazione, la riduzione a cosa. Per quanto inconsapevole, c’è la tipica volontà di dominio della ragione moderna.

Ma questo è solo un primo esito. C’è anche un passaggio ulteriore. L’artista infatti non ha solo messo in scena la preghiera, ma ha messo in scena delle soglie che entrano in conflitto. Anzi, possiamo dire che l’essenza e lo scopo dell’installazione è l’innesco del conflitto.

Se applichiamo una lettura girardiana, il conflitto o va all’estremo e distrugge tutti i contendenti o si placa attraverso una vittima immolata, un capro espiatorio che espulso riappacifica i contendenti. Una pace solo momentanea, apparente.  Nel frattempo però, la vittima, avendo comunque portato la pacificazione e quindi manifestato un potere, viene divinizzata. Questo è il processo con cui sorge il sacro nelle società arcaiche. Ogni dio, ogni mito nasconde una vittima.

Quello che fa l’installazione è scivolare verso la messa in scena di un conflitto affinché si manifesti il sacro arcaico. C’è da chiedersi quale sia la vittima pacificante attesa dal copione di Christoph Büchel. C’è da chiedersi chi sia il dio atteso da Christoph Büchel.

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