Ripartire da zero. E ripartirono: presero dei punti e li sommarono; accatastarono linee; assemblarono superfici. Ripartirono da zero, ma si fermarono alle addizioni. La palingenesi creò scatole. Le battezzarono “macchine da abitare”.
Il principio è questo: il meno è più. Ci deve essere solo ciò che serve. E ciò che serve è dritto, spigoloso, piatto. Tutto uniforme. Nessun ornamento. Bianco su bianco. Così la materia fila via come un’idea. Non ingombra più. Rarefatta diventa angelica. Spolpata diventa spirituale. Pura architettura pura.
Il risultato è questo: tutto è impilato. Tutto è lì perché porta un carico. Nulla mai riposa. Tutto è lì solo perché impiegato. Tra tutte le funzioni possibili è ammessa solo la funzione che serve. Tutto è servile. Tutto è giogo. Non c’è dono. Non c’è grazia.
Non è architettura per uomini. È architettura per telamoni.
Ψ
L’ornamento, invece, segna una differenza. Segna che qualcosa eccede. Che non tutto è servile. Che c’è dell’altro. L’ornamento segna un già e non ancora. Segna che solo una parte è legata, fissata a terra, sotto lo sforzo del peso. Segna che una parte regge e lavora e non può non reggere e lavorare, pena il crollo e la morte. Ma una parte no, una parte riposa. Una parte ha già conosciuto la libertà. Come un volto che alza lo sguardo.
La mano che orna è una mano libera. Che non deve solo cacciare o tagliare le frasche o portare il cibo alla bocca. È la mano di un uomo libero.
Solo l’uomo orna perché solo l’uomo ha una capacità creativa che lo libera dall’urgenza, dal freddo, dal cibo, dall’uccidere. Solo l’uomo è a immagine e somiglianza di Dio. Solo l’uomo partecipa del riposo di Dio. Solo l’uomo celebra la festa.
L’ornamento, fin dal principio, riproduce elementi vegetali. Che sono segno di quel primo giardino. Di quei primi dialoghi. Di quella confidenza con Dio.