Riprendendo quanto detto, andiamo avanti con un’altra tappa di questa via pulchritudinis.
Ciò che consta è che qualcosa è.
Distruttibile fino a quando non è avanzo indistruttibile, questo qualcosa costituisce un residuo più forte di qualsiasi tentazione di sopprimerlo, di ridurlo all’insignificanza o a un sogno, a un nonnulla, a un nulla. Aliquid est: chi prova a dire di no, si ritrova in casa l’aliquid appena scacciato.
Questo aliquid è, e lo è mostrando la propria determinazione, il proprio limite e il proprio essere relato. Se pretendesse di essere un in sé nel mentre rinvia ad altro sarebbe contraddittorio.
Qualcosa esiste, e consiste in forza di una alterità. Questa alterità non è un altro aliquid, in quanto non ne sarebbe condizione di esistenza adeguata (avremmo solo spostato il problema più in là). E questa alterità, questo non essere, la negatività di ogni determinazione, non può essere un puro nulla. Altrimenti avremmo nuovamente una contraddizione: se quanto viene all’essere viene dal nulla, essere e nulla sarebbero identici.
Due, quindi, sono i dati irrinunciabili che si impongono: l’esperienza (con il suo non essere) e il principio dell’essere (solo l’essere è condizione del suo essere).
Una soluzione tentata è stata quella di annichilire l’esperienza, ovvero è stata la soluzione parmenidea: l’essere è un’astrazione logica di tutte le esistenze, dove ogni determinazione è contenuta nell’insieme delle altre determinazioni, una sorta di equivocismo totale dove tutto sta identico a se stesso e non diviene, tutt’al più appare e disappare l’identico (una soluzione, checché se ne dica, che a me pare più nichilistica del divenire più diveniente).
L’altra soluzione, invece, offre la mediazione tra i due dati irrinunciabili: l’essere sta prima ed è origine e l’ente è una determinazione dell’essere; l’essere comprende l’ente e insieme lo costituisce e lo trascende. Il non essere dell’ente è dunque ancora essere. Abbiamo quindi il differire del medesimo dove le determinazioni si distinguono realmente tra loro, partecipando di una identità che le costituisce e una differenza che le trascende. Abbiamo in questo modo una originaria differenza ontologica che distingue l’essere dall’ente (o, più precisamente, dalla totalità degli enti). La negatività del divenire è solo una forma di relazione, che fa essere l’ente in sé ma che insieme lo ricomprende nell’essere. Il non essere dell’ente è tale per l’ente, ma di per sé è l’essere stesso. E l’ente è una negazione in cui la totalità dell’essere è negativamente e costitutivamente presente. L’alterità è un non essere, ma non il nulla.
Che la determinazione dell’ente sia reale lo attesta anche l’irrecusabile contraddizione dell’errore e del male. L’ente portatore di una contraddizione non può essere riconosciuto quale modalità dell’essere: l’essere non afferma di essere ciò che non è e non vuole ciò che non può essere. L’originaria differenza ontologica, quindi, ci conduce verso una trascendenza assoluta, dove assoluta significa la non ammissione di una reciprocità tra essere ed ente: l’ente non costituisce una necessaria determinazione dell’essere. Vi è una negatività dell’ente che non può corrispondere ad una qualche determinazione dell’essere.
Se vogliamo è l’antica storia per cui dal due si risale all’uno, ma dall’uno non si deduce necessariamente il due. Questa non reciprocità, questa trascendenza pone lo spazio possibile per la potenza del negativo, per la contraddizione. Contraddizione che non è mai assoluta: una contraddizione assoluta infatti annullerebbe ciò che contraddice. Anche l’artista più mefistofelico non creerà mai una contraddizione assoluta, ma sempre relativa. Questo spazio dell’errore quindi si dà, ma allo stesso tempo trova la propria condizione di possibilità in una originaria appartenenza all’incontraddittorietà dell’essere.
L’ente può pretendere di chiudersi nel proprium individuationis. Più è libero e più può essere come tentato dal non riconoscere questo suo debito costitutivo, mentre è nel rapporto con una assenza che è presente che la sua struttura relazionale si sottrae alla contraddizione, ovvero al dissolvimento.
Tutto questo discorso, molto probabilmente, pretende troppo dalla sua sinteticità. Il presupposto, in ogni caso, è questo: ogni discorso sulla bellezza presuppone un discorso sull’essere. Se ens et pulchrum convertuntur, la bruttezza implica un ente mal fondato. Mi sembrava quindi importante, e più avanti lo vedremo, far vedere che è possibile parlare dell’essere come del differire del medesimo, come condizione che garantisce consistenza e intellegibilità, come ricchezza che è mistero aperto al logos.