A una prima ricognizione, il panorama generale delle chiese costruite dopo il Concilio vaticano II è sconsolante: da un lato, abbiamo opere che reiterano stancamente antichi e nobili modelli e, dall’altro, opere solitamente avvitate attorno alla soggettività dell’architetto che declina per l’occasione la sua personalissima idea di “sacro”.
Ma fermarsi a questo scenario non basta.
Io sono stufo di inseguire, lamentandomi, o tempora o mores!, le chiese brutte. Allo stesso modo, non mi esalta vedere rispolverare idee recuperate in sacrestia. Inutile ripetere quello che fa Langone e accoliti. Il fatto è che quando le posizioni si cristallizzano in uno scenario di opposti, ne esce una stasi che uccide ogni corpo vivo.
Il lavoro, e quindi un risorgere, mi pare sia altrove. Trovare chiese non solo contemporanee, ma nuove. Nuove perché gravide di tutta la storia che le ha generate (non solo quindi della storia degli ultimi cinquant’anni). E belle di una bellezza forte delle proprie ferite. Ecco il compito. Non per mediare, non per stilare compromessi, non per tiepidezza, ma per trovare testimonianze di un’ermeneutica della continuità.