Litterae Verbum

Giorni questi dedicati alla Dei Verbum.

Se c’è qualcuno cui piace tirar fuori la battuta che i cattolici leggono la Bibbia da 50 anni, e che il Concilio di Trento ne ha impedito la conoscenza, e che i protestanti quelli sì che la leggevano, eccetera eccetera, forse farebbe bene a leggere questo articolo qui sotto. Non dico che cambierà idea, ma gli verrà il dubbio che la realtà è sempre più complessa.

La Bibbia come Musa. Il fondamentale ruolo dei testi sacri quali sorgenti d’ispirazione della letteratura di Carlo Ossola

«Un libro sacro è normalmente scritto con almeno la “concentrazione” della poesia, tanto da essere, come la poesia, strettamente legato alle condizioni della propria lingua»: così comincia Il Grande Codice. La Bibbia e la letteratura di Northrop Frye, tradotto da Einaudi nel 1986 (ed edito cinque anni prima in inglese). L’autore canadese (1912-1991), illustre Maestro dell’Università di Toronto, era già noto in Italia per i suoi studi: Anatomia della critica (Einaudi, 1969) e Tempo che opprime, tempo che redime. Riflessioni sul teatro di Shakespeare (il Mulino, 1986).
Quando lo incontrai, a Toronto, nel maggio 1985, nel corso del XII Congresso Aislli (Associazione internazionale per gli studi di lingua e letteratura italiana) ove fu brillante relatore, alla domanda perché si fosse accinto a quell’immane impresa, rispose sorridendo che, invecchiando, teneva solo corsi generali per le matricole e accorgendosi – in una città multietnica come Toronto – che per la maggior parte degli studenti la Bibbia era ormai un mondo senza nome, aveva nei suoi ultimi anni di insegnamento tenuto corsi solo su Bibbia e letteratura, in quel modo ampio e sistematico che ancora leggiamo nella sua «Introduzione»: «Si inizia con ciò che ho isolato come le sette fasi di quella che viene tradizionalmente chiamata la rivelazione: creazione, esodo, legge, sapienza, profezia, vangelo e apocalisse». Aggiungeva, per completare quanto era migrato nell’immaginario occidentale, il Libro di Ruth, il Cantico dei cantici e i molteplici rivoli degli Apocrifi. Vedeva, da gran saggio, che la letteratura vive di memoria biblica, ma che essa – spente le credenze – non è più l’ordito su cui si intreccia, tra autore e lettore, la complicità di sensi per cui a Dante era bastato citare e illustrare il salmo In exitu Israel de Aegypto per spiegare tutti i livelli di
significato della sua Commedia. Quel libro fu antesignano di un profondo ripensamento: alla spiccia indagine sincronica delle “strutture” di un testo (che allora furoreggiava) cominciarono ad affiancarsi studi più meditati su questo «alveo mnemonico» rappresentato dalla Bibbia; poco più tardi D.L. Jeffrey pubblicò un efficace Dictionary of Biblical Tradition in English Literature (Grand Rapids, MI, Eerdmans,1992, pagg. 960); e ora in Spagna la benemerita Fundación San Millàn de la Cogolla lancia un ambizioso progetto in più volumi, La Biblia en la literatura española, del quale i primi due tomi, ora apparsi e dedicati alla «edad media» sono un’eccellente esemplificazione, intorno al testo e all’immaginario che esso ha suscitato. In Italia, certo, molto fanno le edizioni del Sismel, sotto la guida di Claudio Leonardi e Agostino Paravicini Bagliani, molto – almeno per la tradizione dei classici e dei Padri – la Fondazione Valla, Jaca Book – come testimonia il libro qui segnalato -, Città Nuova e altri piccoli e medi editori. Ma manca lo sguardo d’insieme, il repertorio o il saggio – tante volte in più capitoli delineato da Giovanni Getto – che mostri la continuità di questa fedeltà, nella letteratura italiana, tra Bibbia e invenzione poetica.
Un celebre editore, al quale ho sottoposto il progetto di un affresco, in più volumi, dedicato a Bibbia e letteratura italiana, mi ha risposto: «Spiacente, ma l’argomento è troppo specialistico»! È diventato specialistico perché la letteratura non parla più – se non raramente – dei destini dell’uomo, della lettura del cosmo, del senso del vivere, e la Bibbia non è più percepita come manuale di vita, di epica di un popolo, di avventure di gloria e d’amore, di tradimenti e dannazione, di visioni e profezia, di battaglia contro la morte, quale è stata per centinaia di generazioni. Del resto, che sarebbe la Bibbia, senza la letteratura? Chi ricorderebbe più il «Cantico dei tre fanciulli» nella fornace ardente (Daniele, 3, 51-90), senza la sintesi mirabile e riscrittura che ne ha fatto san Francesco nel suo Cantico, proprio a esordio della letteratura italiana? E non sarebbe che un “figurante” della Passione, Ponzio Pilato, senza l’incessante riscrittura che ne ha fatto il romanzo, da Anatole France a Roger Caillois, senza contare Il Maestro e Margherita di Bulgakov. La Bibbia non è conservata dalle Encicliche, dai decreti, dai Concili delle Chiese: quando mai si cita il Credo pensando all’interminabile controversia teologica del Filioque, mentre invece salgono alle labbra e alla
memoria le volute, da Bach e da Mozart, dei «visibilium omnium et invisibilium» (da Col., 1,15-16)? E la Bibbia, ancora, non è conservata dall’umiliante ricalco che ne fanno oggi i “letteralismi” fondamentalisti (della creazione, o della fine del mondo) di sette, più o meno “rigenerate”, da una parte e dall’altra d’Atlantico: tolgono a essa l’impeto del “sempre nuovo”.
Il mondo medievale, e Dante su tutti, aveva capito che la Bibbia è opera in futurum e, almeno per trattenere un po’ del suo straripante significare, aveva distribuito la sua “leggibilità” su quattro registri – letterale, allegorico, tropologico, anagogico – in modo che lo stesso passo portasse dalla lontana liberazione di Israele dalla schiavitù d’Egitto alla liberazione dell’umanità tutta dalla morte nel tempo ultimo della Gloria.
La Bibbia fondò la letteratura e le letterature l’hanno gelosamente riscritta, hanno lottato con essa, con la sua grandiosa epica e domestica quotidianità: chi troverà maledizione più cruda di quel paolino «La loro gola è un sepolcro spalancato» (Romani, 3, 14)? Chi troverà ragioni più vigorose alla dignità del lavoro umano, che quel versetto di Zaccaria: «In quel giorno ogni profeta si vergognerà della visione che avrà annunciata, né indosserà più il mantello di pelo per raccontare bugie. Ma ognuno dirà: “Sono un lavoratore della terra, a essa mi sono dedicato fin dalla mia giovinezza”» (13, 4-5).
Salutiamo con gioia questi libri bene auguranti; interrompano, almeno per un poco, il clangore dissonante che ci avvolge, che ci impedisce di udire la voce di Matteo, 11, 17: «Vi abbiamo suonato il flauto e non avete ballato, / abbiamo cantato un lamento e non avete pianto». (Il Sole 24 ore, 17 agosto 2008)
– «La Biblia en la literatura espanola», sotto la direzione di Gregorio del Olmo Lete, voll. I.1 e 1.2 (coordinati da Maria Isabel Toro Pascua), Trotta, Madrid, pagg. 304 + 280, s.i.p.;
– Philippe Sellier, «La Bible expliquée à ceux qui ne l’ont pas encore lue», Seuil, Paris, pagg. 368, € 20,00;
– Enzo Noè Girardi, «Letteratura italiana e religione negli ultimi due secoli», Jaca Book, Milano, pagg. 250, €22,00;
– Gabriello Chiabrera, «Poemetti sacri. 1627-1628», a cura di Luca Beltrami, Simona Morando, Franco Vazzoler, Marsilio, Venezia, pagg. 304, €19,00.

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Due settimane dopo sempre su “Il sole 24 ore” viene pubblicata, a commento dell’articolo, questa lettera firmata da Massimo Rubboli dell’Univeristà di Genova (e autore del libro “I Protestanti”, Il Mulino): 

L’articolo di Carlo Ossola dedicato all’influenza dei testi sacri nella letteratura di vari paesi, pubblicato su Domenica del 17 agosto, non fa riferimento a un dato storico di straordinaria importanza, indispensabile per comprendere il diverso ruolo che la Bibbia ha avuto nella società e nella cultura di paesi come l’Italia, la Spagna, l’inghilterra, la Scozia o la Germania. Per quanto riguarda la nostra penisola, infatti, va ricordato che la Bibbia in lingua volgare fu estirpata dal Concilio di Trento in poi (si veda il bel libro di Gigliola Fragnito, La Bibbia al rogo, il Mulino, 1997) privando per due secoli la cultura italiana del testo che divenne l’opera più letta nelle lingue vive di altri paesi. Se è vero che le persone con un certo grado di istruzione conoscevano il latino, non è la stessa cosa leggere i testi sacri come un testo riservato a una ristretta cerchia di persone e leggere la Bibbia tradotta dai testi originali in una lingua viva, come avvenne nei paesi ove si diffuse la Riforma protestante. Neanche la Bibbia in lingua italiana dell’abate Martini, pubblicata nel 1769, modificò sostanzialmente l’atteggiamento nei confronti della Bibbia, che due secoli di repressione ecclesiastica avevano reso un libro pericoloso da leggere e possedere.

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Risposta di Carlo Ossola

La lettera del professor Massimo Rubboli avrebbe potuto essere incrementata, a beneficio della sua tesi, anche dal successivo libro di Gigliola Fragnito Proibito capire: la Chiesa e il volgare nella prima età moderna (il Mulino, 2005). Ma quest’ottica più si radicalizza, e più sostiene e conferma il mio ragionamento: e cioè che proprio la letteratura abbia, dal Mondo creato del Tasso all’Inno dei Patriarchi del Leopardi riscritto e perpetuato, in volgare, la Bibbia. Purtroppo mentre infiniti (e stereotipi) sono gli studi sulla censura in Italia, molto minori sono quelli dedicati alle riscritture della Bibbia: non solo quelle colte, alla Tasso appunto (che accompagna il riformato Du Bartas e precede Milton), ma anche quelle più orecchiabili e cantabili come il prodigioso Filippo Tomassini, che ridusse la Bibbia a oratori per musica: “Oratorio sacro overo Intermezi sacri con prosa, ode, liriche, e sonetti. Sopra l’istorie principali della Sacra Biblia. Opera per li compositori di musica, e per li predicatori, belli ingegni, e curiosi” (Venezia, per Domenico Lovisa, 1702, 2 volumi). Preparava così il successo degli Oratori sacri di Metastasio, nei quali la storia di Giuditta, la Betulia liberata, avrà poi la musica di Mozart. E ascoltando quel testo, vien davvero da pensare che abbiano avuto più feconda lettura, e abbiano meglio insegnato, i volgarizzamenti riformati di Joachim Greff? Cerchiamo di essere storici a parte intera: si visiti anche la sola biblioteca di casa Leopardi, e si vedrà di quanta Bibbia fosse pieno il Seicento e il Settecento. Il vero problema è che la Bibbia è “estirpata”, oggi, per omissione, sì che prestiamo ai secoli precedenti quella che semplicemente è la nostra ignoranza.

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