Siamo entrati nella chiesa.
Qui, ci è chiesto di vedere in altro modo. Sempre con gli occhi, certo, ma l’ordine, l’armonia, la bellezza ci invitano ad “alzare gli occhi al cielo”, ad andare oltre all’aspetto materiale della costruzione. A quell’oltre di cui possiamo rendere grazie (Gv 11,41).
Entrati è impossibile stare fermi: l’aula lunga ci invita a metterci in cammino, a risalire (Gv 12, 20-21), mentre l’aula circolare ci spinge a camminare centripeti lungo le pareti, segnando così il centro che innalza in alto i nostri cuori.
Lungo la chiesa si procede alzando gli occhi al cielo, ma calpestando le pietre tombali, messe lì apposta per camminarci sopra, fondamento nobile e gentile al nostro peregrinare nell’attesa comune che ricapitola la storia intera.
Qui, il dentro non è il chiuso. La separazione non vuol dire limite. L’aperto non si trova fuori. Ecco il paradosso: le alte mura spalancano l’universo.
L’abside sfonda il tempo: segnato dalla croce è l’attesa della fine dei tempi, della parusia, del ritorno del Signore. Rivolto a oriente, è il sole che sorge, il sole di giustizia (Ml 3,20), immagine del Risorto e della speranza che anticipa l’eterno. I colori dell’abside sono l’oro senza tempo e l’arcobaleno della mandorla di Cristo in trono.
La volta scoperchia gli spazi del cielo e mostra gli angeli e la miriade di Santi senza nome. E’ il cielo piegato (Sal 144, 5) da Dio che scende e dona la pace, caparra ora, adesso, della vita eterna. Tutto il creato partecipa delle redenzione.
Nella Chiesa si mostra l’universo intero così com’è.