Scrive Giorgio Agnisola su Avvenire di venerdì scorso “Ma si può chiedere a un artista non credente di realizzare una chiesa? Il dibattito è aperto”.
Secondo me, sì. Almeno in linea di principio. Il problema, semmai, è se sul mercato siano reperibili artisti non credenti che condividono il presupposto che concepire una chiesa significa spingersi “ben oltre le emozioni epidermiche e individuali”. Anche perché dopo 400 anni di arte sempre più chiusa nel proprio castello autoreferenziale, trovare un artista non credente disposto, come scrive Agnisola, “ad aderire a un progetto comunitario, accogliere l’evento che si rinnova nel sacrificio e nella promessa di una nuova ed eterna alleanza tra terra e cielo… consapevole della propria responsabilità ecclesiale” equivale a trovare artisti e architetti non credenti disposti a intraprendere un autentico movimento di conversione.
Sta di fatto che molte opere discutibili sono state edificate. Alcune le ho anche segnalate (e non sono certamente quelle più eclatanti): Heinz Tesar a Vienna, Fuksas a Foligno, la vetrata di Richter a Colonia…
Quindi, alla fine, il problema non è tanto se l’artista non cattolico possa progettare una chiesa, ma se la committenza sia in grado di essere committenza ovvero di porre limiti alla libera creatività dell’artista, chiunque esso sia.
Non è questione di censura (anche perché esistono biennali, triennali, gallerie, bar, vernici e aperitivi dove manifestare ogni tipo di impulso creativo). Né è questione di sola cautela. E’ questione antropologica.
Il rischio della creatività è di essere confusa con il possesso della possibilità, con il gioco seduttivo delle occasioni, con la potenza dell’arbitrio, con il soprendente, con il delirio. Abbiamo generazioni di creativi che si librano ironici su tutto pronti a precipitare tra le macerie della più cinica malinconia. Questa non è creatività.
La creatività si misura con il limite, percorre le soluzioni già date per verificarne il limite, le insegue fin dove si manifestano come paradosso, non per solleticarsi con i nuovi stimoli, ma per trascenderlo in una unità superiore. La creatività è ricerca di un’ipotesi superiore. E l’annuncio cristiano è pieno di paradossi: il Regno di Dio che è vicino, l’invisibile che si fa visibile, l’alto che si abbassa, il pieno che si svuota, il tremendo che si fa misericordia. Paradossi che si risolvono nella persona di Gesù, che pur rimane sempre nel già e non ancora, verbo principio di intellegibilità e mistero.
Dire quindi “che anche un ateo interpreta il sacro” mi pare un’affermazione che porta a poco. Perché l’artista, che sia credente o non credente, per costruire un’opera, una chiesa non può non passare attraverso un continuo e libero movimento di conversione che investe tutta la sua creatività. E la committenza lo deve aiutare, non lasciandolo reiterare la sua idea del sacro, ma chiamandolo all’origine della sua creatività, al suo essere imago viva dei, alla sua piena umanità.
Ben detto!
Si tratta anche di conoscere la “lingua” dell’arte e dell’arte sacra. Ma questa non la conoscono né i committenti né gli artisti contemporanei. Ce poco da fare viviamo in un epoca di macerie. Dopo la distruzione di tutto! Ora è tempo di riedificare! Ma bisogna iniziare dalle fondamenta. Sono anni che reclamo una “scuola”(materna) per artisti committenti e storici dell’arte cattolici (e presunti tali , come quelli che spesso scrivono su Avvenire), che non deve chiudersi, ma studiare serenamente per poter poi ridare slancio ad un vero umanesimo. Qui invece si confonde tutto in un indistinto che non porta a nulla, perchè è totalmente autoreferenziale. Hai ragione la questione è eminentemente antropologica, ma chi lo capisce questo?
Come si fa ha pensare che un romanista (scusate la metafora tratta dalla cronaca) sappia interpretare i sogni e le aspirazioni di un laziale? Con quali colori scriverà l’inno alla squadra del “cuore”?
L’Arte è pricipalmente condivisione (di tutte le parti) del medesimo linguaggio. C’è un bel testo di un domenicano misconosciuto P. Eugenio Marino, “Estetica, Fede e Critica d’Arte”, Pistoia 1997, che sarebbe, se letto e studiato, molto utile a derimere tutti termini in questione.
Un punto centrale del libro, con un linguaggio sicuramente complesso che riprende molto dalla linguistica oltre che da tante altre discipline (per questo lo trovo interessantissimo) tratta dell’omologia dell’espressione-verbale della Sacra Scrittura con l’espressione-figurativa dell’arte.
In altre parole esiste una plurisecolare tradizione che vede l’arte come l’altra Tradizione magisteriale oltre i testi canonici, ma non solo come semplice traduzione in immagini, ma come lingua atta a dire quel che con le parole non è possibile. C’è anche un nuovissimo testo di Francesco Saracino, “Il nome dipinto”, Marietti 2007, che nell’itroduzione offre una bella riflessione sulla figura dell’artista come “esegeta della Bibbia”. Io personalmente aggiungo, parafrasando Giovanni Paolo II nel “Trittico Romano”, che l’artista è teologo. Ma se l’artista contemporaneo, non conosce nemmeno i testi sacri e non prega come farà a “dipingere” trattati di teologia? L’iconografia cristiana che è stata dismessa come “roba vecchia” in realtà è la vera lingua artistica della Chiesa, perchè è cresciuta con essa e ha contribuito a che essa crescesse così come è cresciuta.
Dobbiamo studiare e imporre che anche gli altri studino, altrimenti faremo come quel cieco che guida altri ciechi nel precipizio (ho citato non solo un proverbio, ma anche Bruegel).
Complimenti ancora per tutto quanto fate e scrivete.
Rodolfo
P.S. ormai è divenuta una bella abitudine quotidiana di vedere quali stimolanti novità trovo nel vostro bolg!
E’ una bella abitudine anche prestare lo spunto per trovare poi questi approfondimenti. E continuo anche a segnarmi queste segnalazioni bibliografiche.
Un punto nodale è senza dubbio questo: “esiste una plurisecolare tradizione che vede l’arte come l’altra Tradizione magisteriale oltre i testi canonici, ma non solo come semplice traduzione in immagini, ma come lingua atta a dire quel che con le parole non è possibile”. L’artista come teologo: cercare di verificare e approfondire le condizioni di possibilità per l’attuazione di una così alta vocazione vorrebbe proprio essere un compito ambizioso di questo blog.
A me pareva che il contributo di Agnisola offrisse una prima ricognizione e una serie di spunti fecondi. Poi il Corsera l’ha ripreso buttandola sull’artisticamente corretto, con in più l’intervento di Fuksas che rimanifesta tutta la sua, diciamo così, sprovveduta autoreferenzialità. Non ho capito perché Avvenire non abbia subito ripreso il tema, mostrando anche la pochezza dell’approccio assunto dal Corriere.
L’articolo del Corriere che hai linkato è un buon esempio della attuale pochezza con cui molte persone si confrontano sia con la religione che con l’architettura.
Condivido invece il tuo scritto