Agostino Arrivabene – Il corpo di Dio

Testo di Luigi Codemo per il catalogo pubblicato in occasione della mostra “Resurrectio” realizzata alla GASC | Galleria d’Arte Sacra dei Contemporanei di Villa Clerici, Milano – settembre ottobre 2020, in collaborazione con Isorropia Homegallery.

C’è stato un tempo in cui alle nature più diverse era consentito mischiarsi. Le vette e le nuvole, le lacrime e i nevai, i fiori e il sangue, l’eco nelle grotte con le incursioni di centauri e satiri. Queste continue metamorfosi regnarono fino a quando non fu imposto un limite, un metro. In Occidente questa misura prese il nome di Apollo, il dio della forma distinta, equilibrata, olimpica. La realtà si irrigidì, le forme si fissarono: il mondo divino, umano e animale, le potenze visibili e invisibili, iniziarono ad assumere un ordine stabilito.

Il flusso di metamorfosi pieno di esseri mutevoli e indistinti non scomparì ma migrò nel regno della mente. Questa rimase un luogo aperto simile a una fonte che scorre perennemente e da cui possono affiorare immagini sempre nuove e mutevoli. E così è ancora oggi, poiché la stessa modernità (diciamo quella che inizia da Cartesio in poi) concepisce la conoscenza come rappresentazione e la mente come un incessante teatro di posa.

Le opere di Agostino Arrivabene ne sono un esempio, ne sono la manifestazione notturna, proteiforme, spesso onirica, sempre labirintica. Le sue figure sono precise come allucinazioni. Il controllo assoluto della sua tecnica pittorica è proporzionale alla manìa che lo attraversa. Le sue forme emergono da un fondale oscuro. Egli le mette in scena. Apre sipari su sipari. E dietro un sipario c’è un altro sipario, dietro una maschera c’è un’altra maschera in un gioco di citazioni e di rimandi senza fine.

Qualcosa accade e cambia con le tele che hanno al centro il corpo di Cristo. Spogliato delle vesti, Cristo mostra il corpo nudo. È come se le sue vesti, o il sudario del sepolcro, fossero l’ultimo sipario. Il corpo è svelato. Qui si giunge finalmente a toccare il fondamento. Come nell’opera Olos-caustos (2019-2020) il mistero non sta più nel segreto, nell’allusivo. Il mistero è nell’esposizione di un corpo che muore per amore, docile come un agnello. Se solitamente l’artista tiene a distanza gli affetti tramite la stupefazione e l’erudizione, qui permette che la contemplazione diventi commozione.

Il mistero di un corpo svelato è al centro anche delle tre grandi tele Resurrectio Christi (2010-2011). È come se l’artista si fosse posizionato accanto al Mantegna mentre dipingeva il suo Cristo Morto ma, avendo indugiato un po’ più a lungo in quel sepolcro, avesse potuto assistere all’inizio di una trasformazione di quel corpo. Non ne sappiamo molto di più. Non vediamo il Risorto. L’artista si è fermato sulla soglia di quel mistero. Ad offrire una chiave interpretativa c’è il grande telero Anastasis (2010-2011) che mostra quel corpo morto come riflesso in una sindone. Qui diventa chiaro che il punto centrale e ineludibile è pensare il corpo di Dio. Che quel corpo ha patito. Perché, dopotutto, che Dio possa risorgere non fa problema. Ma che a risorgere sia stato un vero corpo e non solo una sembianza dell’umano, che la risurrezione non equivalga a un’ennesima metamorfosi, a una qualche allegoria, questo sì fa problema. Il telo della sindone restituisce l’immagine di un corpo. O meglio, di quel corpo, di quella precisa esistenza. La sindone è l’icona che permette di leggere il corpo di Cristo esattamente come si leggono i rotoli delle scritture. Vero Dio e vero uomo, «perché ha patito» sottolineavano i Padri della Chiesa.

Che non siamo di fronte a un Dio impassibile o a un Cristo astrale lo mostra in modo emblematico anche una terza opera, Exsurrexi (2019). Qui il Risorto ha ancora la morte addosso. Perché è stata morte vera. La risurrezione, infatti, non è una restaurazione della divinità, come se l’incarnazione di Dio fosse stata solo un intermezzo. Dio si è fatto irreversibilmente uomo. Ecco perché mostra le mani che portano i segni dei chiodi. Certo, trasfigurati, ma sigilli reali della morte che l’apostolo Tommaso frugherà per verificarne l’autenticità. Nel corpo del Risorto, nella potenza di Dio, fin dentro il mistero della Trinità, permangono le ferite di quei chiodi. Il corpo non viene espulso dalla divinità.

Il supporto del dipinto, una tavola di cedro del Libano attraversata da profonde screpolature, accentua la fisicità della figura mentre la foglia d’oro la inserisce dentro una luce senza tempo, incorruttibile, già divina. C’è quindi nella sintesi dell’opera un doppio movimento, di abbassamento e di innalzamento. Agostino Arrivabene dà letteralmente corpo all’inno cristologico che troviamo in San Paolo: «Cristo non ritenne un privilegio essere come Dio, ma spogliò se stesso assumendo la condizione di servo… per questo Dio lo ha esaltato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni altro» (Fil 2,6-9).

Il percorso tra le opere esposte suscita ammirazione per l’abilità con cui tecniche e materiali vengono utilizzati: olio su lino, grafite su seta, supporti come i legni fossili e la rara tecnica dell’encausto a freddo che restituisce colori unici dall’impasto morbido e luminoso. Queste tecniche non si risolvono in un virtuosismo fine a se stesso, ma assumono e rinforzano un significato teologico: se Dio stesso si è fatto corpo e ha abitato questa carne allora l’arte con la propria sapienza è chiamata a prendersi cura della materia, anche quella più frammentata e inerte, per riconoscerne la dignità e renderla testimonianza di lenimento e conforto, di verità e bellezza.

Luigi Codemo

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