L’analisi in questo articolo di Salìngaros è salutare: rovescia ogni giudizio affrettato e presenta la cattedrale di Houston come innovativa e quella di Oakland come reiterante moduli propri del modernismo e del decostruttivismo, insomma roba già vista e rivista. Basilare nella sua argomentazione mi pare il riferimento alla differenza dei linguaggi architettonici presupposti. Il linguaggio della tradizione è adattativo e le sue forme possono innovarsi in nuove formule espressive. Il linguaggio modernista, invece, rifiuta ogni cambiamento, chiuso in forme pure quanto inerti e statiche.
Partendo da quanto evidenziato dallo stesso Salingaros, mi pare che si possa procedere con alcune ulteriori considerazioni.
Houston parte da un linguaggio tradizionale per sottoporlo a una forte astrazione, crea “piani svuotati e volumi astratti”. L’edificio chiesa rimane riconoscibile grazie al permanere dello scheletro tradizionale. Emerge certamente un innovare nella tradizione, ma il progetto è subordinato a una dinamica che trova nell’astrazione e nell’armamentario della modernità il criterio base per operare. Armamentario che viene utilizzato con equilibrio, con moderazione. Ma questa moderazione alla fine rimane volontaria, soggettiva. Mi chiedo se ci sia qualche motivo per cui il principio affermato non possa procedere verso un’astrazione più esasperata.
Io penso che l’innovazione dipenda dai problemi affrontati. E su questo piano Houston non ha un problema o, perlomeno, fa come se non ci fosse: dà per scontati la tradizione iconografica cristiana e il linguaggio moderno.
La dinamica tracciata dal progetto di Oakland appare inversa: parte da un linguaggio moderno e astratto, utilizza elementi asettici propri dei non luoghi, assume tutto quanto oggi passa per essere architettura, combina senza remore suggestioni diverse, dall’ogiva gotica alle traversine aeroportuali, fino a inserirsi nella “tradizione postmoderna”.
Il punto interessante è proprio qui: nel tentativo di amalgama di stimoli diversi inserire la grande immagine di Cristo. Anche i diversi crocifissi della chiesa non hanno paura di mostrare il corpo. E questo, oggigiorno, non è cosa da poco.
Certo, ad esempio, la grande immagine di Cristo è monocromatica, come il razionalismo esige. Quella di Houston invece è ancora sgargiante di colori. Ma la lettura deve essere considerata in senso dinamico: mentre a Houston la grande vetrata con il Cristo dai colori sgargianti resiste ma non è dato a sapersi fino a quando potrà resistere e in base a cosa resiste, a Oakland il grande Cristo è stato immesso nuovamente. Innumerevoli chiese sparse in giro per il mondo hanno categoricamente rifiutato l’immagine e l’immagine del corpo in croce. Qui invece è di nuovo presente. A Houston l’immagine c’è ancora, a Oakland è ritornata. A Oakland l’immagine ha posto un problema, fosse anche solo con la sua rinnovata presenza.
L’ho già detto. La soluzione della cattedrale Christ the light può apparire ingenua e ferma ad un mero accostamento, ad una cumulazione tipica del postmoderno. Ma se a Houston è il razionalismo che determina il risultato, ad Oakland è l’immagine, anzi, è lo statuto teologico dell’immagine a porre i termini del problema al linguaggio architettonico.
Su questo in particolare inviterei a riflettere. La tradizione cristiana non è mai rimasta ferma. Ma ha sempre rifiutato anche le palingenesi. Il pensiero moderno quello sì ha preteso la palingenesi. Il cristianesimo invece è chiamato a rinnovare tutte le cose. Non teme le ferite, anche quelle moderne, se trasfigurate. Mi sto quindi chiedendo se anche la storia moderna, anche quella più pura che si chiude nelle sue geometrie irrelate, possa essere assunta e… trasfigurata.