Mors et vita duello conflixere mirando, Vita e morte si affrontano in un prodigioso duello. Che la vita vinca sulla morte è inscritto nel primato dell’essere sul non essere. Che la mia vita e la tua vita non soccombano per sempre, questo no, non è inscritto. E’ proclamato.

Pericle Fazzini, deposizione

L’opera è di Pericle Fazzini, Deposizione, bronzo, 1946, Milano, Galleria d’arte sacra dei contemporanei.

Tutto appare perduto. Folla e soldataglia hanno già voltato la schiena: si sono spartiti le vesti buone e sono usciti di scena. Si è fatto buio. Il vento spazza gli unici rimasti sul Golgota, gli abbandonati. Di Gesù di Nazaret, il crocifisso, è rimasto il peso, il corpo morto che s’incurva e cade.

Anche lamento e invocazione ora tacciono. L’insegnamento di Gesù, di colui che era chiamato maestro dalle folle, è disperso come lo spreco; le sue parole sono schernite come vanità delle vanità. Rimane fissa e ben piantata la croce, una come tante, una come le altre che appaiono attorno. Quel legno non ha bellezza né gemme gloriose, ma chiodi e la forma del macabro patibolo, dell’infamia, del rifiutato dal popolo. La madre Maria, sconsolata, attende solo di poter terminare il pianto, attende la pietà di coloro che staccano dalla trave il figlio per deporlo sul grembo vuoto.

Tutto appare perduto. Eppure qui, questa esibizione del venerdì santo non riesce a dichiararsi termine ultimo e ineluttabile. Non riesce, perché una simile dichiarazione si rovescerebbe, come si rovesciano le mezze verità.

Sostando davanti a questa deposizione, a questo bronzo inciso da Pericle Fazzini, ci si accorge di segni che emergono dal silenzio, di segni che annunciano che la vita è comunque più forte della morte. E’ come se sottotraccia fosse già contenuto un sapere più grande pronto a dire: ogni immagine che si fa impronta di Cristo, della Vita che si è fatta visibile (1Gv 1, 2), non può non narrare di un «prodigioso duello dove morte e vita si sono affrontate, e dove il Signore della vita ha trionfato sulla morte» (dall’inno Victimae Paschali).

A terra, qualcuno, forse Giuseppe d’Arimatea, accoglie nel palmo delle mani il volto, il corpo di Cristo. E lo riceve come si riceve l’Eucaristia, cibo e caparra di vita eterna. Nel silenzio e nella desolazione del Golgota, nel fraintendimento più totale di colui che è la Parola, inizia ad emergere la Grazia di Cristo, ad emergere in modo insopprimibile perché non consistente in una astratta dottrina ma nel dono della sua stessa Persona. Vedere il Figlio così, trafitto e slogato, non è certamente affascinante. Eppure sulla croce avviene l’estrema opera di rivelazione di Dio:«Io sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me» (Gv 16, 6).
La Verità è esposta lì a costo di essere vilipesa e dileggiata non per comunicare rassegnazione e debolezza, ma per mostrare la forza di chi, morendo per il prossimo (Gv 15, 13), ricompone l’obbedienza nella libertà, la libertà nella verità e la verità nell’amore.

E’ come se, in questo silenzio, le parole del Salmo 22 pronunciate da Gesù sulla croce non si
fossero fermate al «Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato», ma continuassero ad essere pronunciate, lentamente, per passare dal grido angosciato alla speranza che man mano nei versi si fa avanti: «Lodate il Signore… perché egli non ha disprezzato né sdegnato l’afflizione del misero, non gli ha nascosto il suo volto… e io vivrò per lui, lo servirà la mia discendenza… al popolo che nascerà diranno: “Ecco l’opera del Signore”». Le parole gridate da Gesù sulla croce non si chiudono nella disperazione, ma fanno presagire che nulla di quel sacrificio andrà perduto, ma tutto raccolto per la nascita di un popolo nuovo.

Ecco allora che il rantolo del morente sulla croce diventa l’effusione dello Spirito Santo che scompagina come un vento impetuoso i capelli degli uomini, la natura, l’intero creato. E quel nulla desolato del Golgota, che dilaga come solo la morte di Dio può rendere presente, costituisce quel nulla a partire dal quale ha potuto compiersi la Nuova Creazione, il rinnovamento del creato. Quel vento di tempesta si rivela come lo Spirito che tutto vivifica, lo Spirito Creatore, colui che porta la rigenerazione dall’alto, e un nuovo essere, un nuovo cielo, una nuova terra. Un uomo nuovo.


Una replica a “Mors et vita”

  1. […] (continua – 6) […]

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